di Christian Caliandro
Prendiamo lo spot proiettato in anteprima alla fine della conferenza internazionale dei Ministri della Cultura che si è tenuta all’Expo il 31 luglio e il 1 agosto scorsi, e che da allora viene trasmesso: è un punto di partenza buono come un altro, ricco e denso di spunti utili per indagare la percezione diffusa della cultura nel nostro Paese.
Giancarlo Giannini, uno dei più noti attori nazionali, interpreta un maître che – all’interno della ‘splendida cornice’ del Palazzo Farnese di Caprarola – offre a noi spettatori il menu della cultura italiana. Un menu che consiste in: archivi e biblioteche; “arte in generale” (sic); siti archeologici; beni storici e antropologici (“per i palati più raffinati”); il cinema, lo spettacolo dal vivo e quello circense, presentati come “alcune delle nostre specialità”; il patrimonio paesaggistico. Lo slogan è: Italia: il cibo per la mente è in tavola.
Ora, questo catalogo ci mostra innanzitutto come la metafora “gastronomica” continui a ossessionare l’immaginario politico e mediatico in materia culturale. L’inizio di questa storia si può datare, naturalmente, alla famigerata frase dell’allora ministro Tremonti, che conviene qui citare nella sua versione integrale: “Di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura e comincio dalla Divina Commedia.”
Rispetto a quel modello, qui siamo in presenza di un chiaro avanzamento: al posto del bar (alla buvette del Parlamento), con la vetrinetta da qui viene estratto il “panino alla cultura”, qui il contesto è di alta cucina e i piatti sono le eccellenze italiane. Non uno snack, ma un pasto mentale sofisticato.
Rispetto a quel modello, qui siamo in presenza di un chiaro avanzamento: al posto del bar (alla buvette del Parlamento), con la vetrinetta da qui viene estratto il “panino alla cultura”, qui il contesto è di alta cucina e i piatti sono le eccellenze italiane. Non uno snack, ma un pasto mentale sofisticato.
Il problema è che la trasformazione è tutta quantitativa, non qualitativa: al posto del bar c’è il ristorante di lusso, ma la fruizione della cultura è sempre e comunque prevista come operazione unicamente passiva. Senza intervento da parte nostra. Questo tipo di visione si riflette sull’interpretazione stessa della cultura. Se infatti analizziamo il catalogo dei “piatti”, la cultura anche in questo caso è fatta di “beni” (monumenti oggetti manufatti) prodotti in un passato che ha scarse relazioni con noi, con la nostra esistenza, con il nostro tempo.
Non è un caso che sia quasi del tutto assente il presente (tranne, significativamente, per la categoria “cinema, spettacolo dal vivo e circense”): la cultura intesa in questo senso ha dunque una connotazione decisamente nostalgica (la nostalgia è la qualità fondamentale della passività: la sua temperatura), e non viene riattivata dalla produzione contemporanea. Se pensiamo che il Rinascimento – costante termine di riferimento retorico dei discorsi pubblici sulla cultura – si fondava sin dall’inizio sullo sforzo di eguagliare e superare l’antichità, e di utilizzare quel modello per porre le basi del progetto che noi conosciamo come “modernità” facendo rivivere un lontanissimo passato attraverso il tempo nuovo, possiamo forse comprendere meglio ciò di cui c’è urgente bisogno anche oggi.
Dunque, il cameriere esperto che offre educatamente le specialità nazionali da degustare è la figura – non nuova – di uno modo tutto italiano di concepire la fruizione e la produzione di arte e cultura: di uno scenario che, anzi,diventa ogni mese più credibile e realistico. L’Italia – insieme all’intera Europa meridionale, quella non a caso più in difficoltà dal punto di vista economico nell’era della crisi e all’interno del progetto comunitario, in apparente via di dissolvimento – trasformata in vacation land. Un unico grande parco di divertimenti, una nazione orientata unicamente all’intrattenimento: l’associazione, l’identificazione tra cultura e turismo nelle diciture istituzionali è da decenni il sintomo di questo processo. Dobbiamo quindi allenarci a sognare generazioni di giovani – i quali tra non molto, è bene non dimenticarlo, saranno “non-più-giovani” – finalmente e felicemente occupati come camerieri, cuochi, domestici, cicisbei?
E d’altra parte, è già tutto accaduto. Per riconoscere l’origine di questa versione dell’Italia (il Seicento, la Controriforma, l’inizio del Grand Tour), basta rileggere ciò che scriveva quasi sessant’anni fa Indro Montanelli: “Il gendarme spagnolo e il tribunale dell’Inquisizione non trovavano in Italia l’ostacolo che avevano incontrato in Olanda: una coscienza individuale resa consapevole dalla Riforma dei propri diritti e doveri e quindi decisa a tutto pur di salvare la sua autonomia dal sopruso autoritario. La trionfante Controriforma aveva tolto agli italiani questa difesa, e li rendeva disponibili a tutto. È da questo momento infatti che si sviluppa nel nostro popolo la propensione ai mestieri ‘servili’, in cui tutt’ora gli italiani eccellono. Essi sono i migliori camerieri del mondo, i migliori maggiordomi, i migliori portieri d’albergo, i migliori lustrascarpe, perché cominciarono a esserlo fin d’allora, quattro secoli fa” (Storia d’Italia. L’età della Controriforma, Rizzoli 1959, pp. 108-109).
Questo articolo è uscito su Linkiesta.
Fonte: minimaemoralia.it
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