di Duccio Facchini
Secondo Expo 2015 Spa, la “Carta di Milano” avrebbe dovuto rappresentare l’“eredità” dell’Esposizione che terminerà il prossimo 31 ottobre. Stampatela -è sul sitowww.carta.milano.it- e cercate la parola “biologico” (o affini): compare due volte in 10 pagine, a proposito di programmi di educazione alimentare nelle scuole e di “valorizzazione della biodiversità”. Nient’altro. Eppure il biologico, a Expo, ha un padiglione: è il “Biodiversity Park”, gestito da BolognaFiere, l’“Official Partner della biodiversità e del biologico”, presentato come “leader mondiale nell’organizzazione fieristica nei settori della cosmetica, moda, architettura e costruzioni, arte, industria automobilistica, cultura e macchinari agricoli”.
I termini, i contenuti e il valore del contratto di sponsorizzazione non sono pubblici -così come i criteri di coinvolgimento di aziende come Granarolo-, sta di fatto che al centro del padiglione bio c’è un supermercato (“biomarket”) affidato alla catena di negozi specializzati a marchio EcorNaturaSì: nata nel 1987, l’azienda veronese oggi conta oltre 160 punti vendita in tutto il Paese, e nel 2013 ha visto il proprio fatturato arrivare a 195 milioni di euro, segnando un più 15% in un anno. La crescita di EcorNaturaSì non è un fenomeno isolato, ma riguarda tutto il comparto del “bio”. Con un’affermazione crescente del canale della grande distribuzione organizzata (Gdo). L’ha certificato da ultima una ricerca commissionata da AssoBio (www.assobio.it) a Nielsen e presentata al “Teatro della Terra” di Expo.
Nel 2014, ogni 100 prodotti alimentari confezionati acquistati presso supermercati o ipermercati (esclusi quindi specializzati o altri), 2,5 erano biologici. In termini di fatturato, l’incidenza si traduce in 737 milioni di euro, più 471% rispetto al 2000 e quasi il 20% in più rispetto a un anno prima. Sommando il fatturato della gdo a quello dei negozi specializzati, delle vendite dirette, dei gruppi di acquisto solidale -che sarebbero cresciuti, secondo il ministero delle Politiche agricole e forestali, del 510% in dieci anni (2004-2014)-, dei piccoli negozi di alimentari, il settore bio nel nostro Paese ha toccato quota 2,5 miliardi di euro (più 12% rispetto al 2013). E questo dato non tiene conto dell’export.
Nel 2014, ogni 100 prodotti alimentari confezionati acquistati presso supermercati o ipermercati (esclusi quindi specializzati o altri), 2,5 erano biologici. In termini di fatturato, l’incidenza si traduce in 737 milioni di euro, più 471% rispetto al 2000 e quasi il 20% in più rispetto a un anno prima. Sommando il fatturato della gdo a quello dei negozi specializzati, delle vendite dirette, dei gruppi di acquisto solidale -che sarebbero cresciuti, secondo il ministero delle Politiche agricole e forestali, del 510% in dieci anni (2004-2014)-, dei piccoli negozi di alimentari, il settore bio nel nostro Paese ha toccato quota 2,5 miliardi di euro (più 12% rispetto al 2013). E questo dato non tiene conto dell’export.
Seppur non sia ancora il primo canale di vendita, la grande distribuzione si sta fortemente orientando verso questo nuovo mercato. Basta guardare gli scaffali delle più importanti catene nazionali, alla ricerca dei prodotti “a marchio” che recano referenze biologiche (cresciute anche queste del 6,7% dal 2013 al 2014). Da Esselunga -marchio Esselunga BIO- a Coop -vivi verde-, daConad -il Biologico- a Carrefour -Carrefour BIO-, da Crai -Crai BIO- a Despar -Bio,Logico-. Dei sei soggetti, solo uno ha accettato di rispondere alle nostre domande, su filiera, certificazione, importazione e rapporti con i propri fornitori: Coop. “I prodotti ‘bio’ hanno un’incidenza sul totale trattato nella rete Coop superiore al 2% -spiega Vladimiro Adelmi, responsabile della linea vivi verde- ma considerando i soli mercati ‘di presenza’, l’incidenza supera il 5%”. Sei prodotti biologici su 10 hanno il marchio Coop: “Nel caso di ‘vivi verde alimentari BIO’ -prosegue Adelmi-, i fornitori attivi sono oltre 70, mentre l’incidenza dei fornitori esteri è marginale. La dimensione media ha una certa variabilità: per i fornitori dei prodotti a marchio prevalgono aziende di medie dimensioni. Per l’ortofrutta è necessario lavorare con organizzazioni di produttori, in grado di gestire un assortimento relativamente ampio, una logistica adeguata, con relativi servizi di consegna e gestione qualità”.
Ed è a proposito dell’ortofrutta -e del fresco bio in generale- che Adelmi dà conto di un problema: “Vista la delicatezza del biologico, è necessario separare questo dal convenzionale”. Per quello che riguarda Coop, al momento -a parte alcuni casi- “i prodotti biologici sono tutti confezionati e quindi non condizionati dalla necessità di adottare sistemi in grado di evitare il rischio di contaminazione con il convenzionale”, un problema che ovviamente non esiste per i punti vendita specializzati biologici. “Nei punti vendita Coop che oggi stanno sperimentando la gestione anche di prodotti biologici sfusi -prosegue Adelmi- sono stati adottati dispositivi e soluzioni in grado di evitare ogni rischio di contaminazione tra convenzionale e bio: layout separati tra bio e convenzionale (ad esempio isole o frigoriferi dedicati), bilance ortofrutta dedicate, materiali differenziati e personalizzati (sacchetti, guanti personalizzati ecc.), addetti del punto vendita in grado di fornire supporto e assistenza ai clienti, gestione separata del magazzino di stoccaggio, formazione ad hoc per il personale del punto vendita. Ovviamente, una gestione di questo tipo ha anche un impatto sui costi”.
E se l’impacchettamento “pesa”, “normalmente” non esiste alcun rapporto di natura esclusiva tra Coop e i fornitori.
Se per il gruppo l’importazione è marginale, a livello aggregato i numeri sono in costante aumento costantemente: il Mipaaf ha misurato una crescita del 21% tra 2013 e 2014, anche a causa della crisi della produzione cerealicola biologica -come sostiene il ministero guidato da Maurizio Martina-. Al 17 luglio 2015 erano 281 i soggetti autorizzati all’importazione dal ministero competente (nel 2007 se ne contavano 46), monitorati da 10 organismi di controllo del settore biologico. Questi ultimi sono CCPB Srl (82), ICEA (60), Bioagricert Srl (55), Qcertificazioni Srl (39), Ecogruppo Italia Srl (15), IMC Srl (10), BIOS Srl (10), ABCERT Srl (7), Suolo e Salute Srl (2) e Sidel Srl (1).
Coop non è nell’elenco dei “monitorati” per importazioni estere perché, come spiega Adelmi, “non effettua direttamente importazioni né di prodotti finiti né di materie prime”. Ci sono invece EcorNaturaSì, leader nel settore principale della distribuzione di biologico (“specializzati”), e la società Ki Group Spa, proprietaria dell’insegnaAlmaverde Bio. Anche per questa società -presieduta dall’onorevole Daniela Santanché e presente nel padiglione bio di Expo- il 2014 ha sorriso: 47,5 milioni di euro di ricavi, più 11,5% rispetto al 2013. A completare il quadro dei (pochi) concorrenti di EcorNaturaSì ci sono Piacere Terra (della famiglia Pozzi, uno dei quattro soci di Eurospin, e della famiglia Scotti, azionista di maggioranza della Riso Scotti Spa) e l’insegna referente della francese Bio c’ Bon, che conta 5 punti vendita a Milano.
Vista la affluenza inferiore alle attese all’Esposizione di Milano, la presenza al “Biodiversity Park” assume una valenza più promozionale che commerciale. Lo conferma ad Ae Roberto Zanoni, direttore generale del gruppo EcorNaturaSì: “Eravamo fortemente dubbiosi nei confronti di Expo, ci sembrava una fiera campionaria e folkloristica. Poi ha prevalso l’idea di presentare un nuovo modello di supermercato. Siamo in una zona defilata, nei pressi dell’ingresso Est: da un punto di vista commerciale non siamo particolarmente contenti”.
La crescita netta del biologico nella grande distribuzione contribuisce alla sostenibilità di Ctm Altromercato -che figura anche tra gli autorizzati all’importazione-, che alla gdo deve il 27% del proprio fatturato. Il 70% delle banane importate e vaschettate a marchio Altromercato -come raccontano da Ctm Agrofair Italia(www.altromercato.it/ctmagrofair), società specializzata nella distribuzione di frutta fresca del commercio equo e solidale- è venduta al supermercato, anche attraverso partnership storiche con Esselunga o Conad.
I risultati del biologico nella gdo impongono però una riflessione critica, che è declinata da Vincenzo Vizioli, presidente dell’Associazione italiana per l’agricoltura biologica (www.aiab.it), che rappresenta circa 5mila aziende agricole piccole o medie. Vizioli incrocia due dati: le risorse complessive previste dai Piani di sviluppo rurale 2014-2020 delle Regioni (PSR), con quelle destinate all’agricoltura biologica. “L’incidenza del biologico sui fondi dei PSR è dell’8,7% -spiega Vizioli-, con punte negative in Umbria (3,7%) o Campania (1,4%)”. Secondo Vizioli “in questa maniera non si copre la domanda”. L’investimento è inferiore all’incidenza della superficie agricola utilizzata a bio (1,3 milioni di ettari nel 2013) sul totale, che è pari al 10,2%. Tradotto: al presunto boom del mercato del bio, il Paese stenta a rispondere direttamente. E a ciò s’aggiunge un altro dato: “La crescita delle superfici ‘bio’ non è proporzionale alla crescita dei produttori, il che significa che nel settore entrano aziende medio grandi ed escono aziende piccole. Non un bel segnale, dato che la superficie media aziendale nel Paese è intorno ai 7 ettari”.
È questo il punto, il modello economico. Maurizio Gritta -presidente della cooperativa agricola Iris (irisbio.com) di Calvatone, in provincia di Cremona, socia di Ae- si dice contento del “successo” dell’etichetta biologica nella grande distribuzione o nei negozi specializzati. Iris, però, ha preso fin dalla sua nascita (nel 1978) una direzione diversa, rinunciando a canali di vendita e distribuzione contrari a quel che Gritta definisce il “biologico di serie A”. E spiega perché: “Il processo che si è innescato punta verso il biologico industriale, un sistema che pensa come l’agricoltura tradizionale, sostituendo semplicemente il concime chimico con il concime naturale. Noi di Iris non ci domandiamo mai quanto dobbiamo ‘dare’ al pomodoro, ad esempio, ma come lavorare con la terra. La differenza è sostanziale”. Gritta, senza entrar nel merito, spiega che questa convinzione ha imposto a Iris di dire qualche “no” a punti di distribuzione di primaria importanza. “Questo modello di consumo e produzione che sostituisce un calendario di prodotti chimici con quelli biologici non è il ‘bio’ in cui crediamo. Quello che pratichiamo da anni vuole portare a una modifica radicale del modo di produrre, mentre il supermercato continua a fare il prezzo al contadino. Tra i due modelli non è possibile alcuna mediazione”.
Fonte: Altreconomia.it
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