di Francesco Ciafaloni
La cultura del mondo globalizzato sembra fondata su due dogmi: l’economia, per sua natura, cresce al 2-3% l’anno; gli indicatori economici e demografici convergono. Se in qualche momento, in qualche luogo, l’economia non cresce, vuol dire che qualcuno o qualcosa – tipicamente lo Stato, i sindacati, i lavoratori organizzati – ne impedisce il naturale sviluppo. Basta fare le riforme, cioè escludere lo Stato dalla gestione delle imprese, di qualsiasi tipo, ridurlo alla sua funzione militare; distruggere i legami sociali; ricondurre gli individui alla loro naturale condizione di concorrenti, impedendo la collaborazione e la contrattazione collettiva, e l’economia riparte. Se alcuni individui, o alcuni gruppi, o alcuni Stati diventano ricchi, la ricchezza si diffonde – trickles down – dai ricchi agli altri; se alcune popolazioni crescono perché le donne (tipicamente le povere e ignoranti) fanno troppi figli e altre popolazioni si contraggono perché le donne (tipicamente le agiate e istruite) ne fanno troppo pochi, basta che la ricchezza si diffonda perché le povere investano nei figli, e perciò ne facciano di meno, e le agiate, adeguatamente dotate di servizi, acquistino sicurezza e ne facciano di più.
Perciò le popolazioni in contrazione (tipicamente le europee, in particolare la Germania, soprattutto orientale, e l’Italia, soprattutto meridionale) torneranno a crescere e si stabilizzeranno e quelle in rapido aumento, tipicamente quelle africane, in particolare del Niger, della Nigeria, dell’Etiopia, della Tanzania, rallenteranno e si stabilizzeranno anche loro. Durante il rallentamento potranno incassare il dividendo demografico (siamo tutti capitale umano, che diamine; ci daranno ben un dividendo), l’aumento della percentuale di popolazione in età di lavoro, che deriva dalla diminuzione dei minori, prima che si accumulino molti anziani, effetto indesiderato della diffusione della ricchezza.
Perciò le popolazioni in contrazione (tipicamente le europee, in particolare la Germania, soprattutto orientale, e l’Italia, soprattutto meridionale) torneranno a crescere e si stabilizzeranno e quelle in rapido aumento, tipicamente quelle africane, in particolare del Niger, della Nigeria, dell’Etiopia, della Tanzania, rallenteranno e si stabilizzeranno anche loro. Durante il rallentamento potranno incassare il dividendo demografico (siamo tutti capitale umano, che diamine; ci daranno ben un dividendo), l’aumento della percentuale di popolazione in età di lavoro, che deriva dalla diminuzione dei minori, prima che si accumulino molti anziani, effetto indesiderato della diffusione della ricchezza.
Sembra una caricatura, ma è proprio la nostra desolante e pubblicitaria realtà culturale. L’Italia deve ripartire; bisogna realizzare lo sblocca Italia.Non si pensa di dover dire quali iniziative culturali ed economiche dovrebbero prendere gli Enti pubblici e il Governo, gli unici che possano usare criteri politici, morali, per ottenere il risultato. Non ce n’è bisogno: l’economia in questa brutta favola (ma si usa dire narrazione) cresce per sua natura, perché gli investitori, cioè tutti quando scelgono di essere tali (qualcuno ha credito per miliardi, a te non prestano un euro, ma che vuoi farci, è la vita) sanno loro cosa è meglio per sé, e quindi per l’economia, e di conseguenza per la cultura, che ne è un sottosistema. Questo non accade in Italia perché viaggiamo col freno tirato. Ma se togliamo il freno, aboliamo i contratti di lavoro e i sindacati, se tiriamo diritto, diventeremo tutti ricchi. Non si sostiene la necessità delle riforme costituzionali perché renderanno più equilibrato il sistema politico, che certo ha dei problemi se nelle regioni più vitali si astiene più della metà degli aventi diritto. L’equilibrio non sembra importante. Si sostiene che consentiranno al Leader di decidere rapidamente. Questo sembra importante. Michele Salvati ha scritto di recente un perfetto elogio del Führerprinzip. La politica consiste nello scegliere un Capo e cambiarlo a scadenza se non ci piace più; purché sia abbastanza sciocco da farsi cambiare anche se dispone di un quasi monopolio della pubblicità.
Non si parla delle differenze economiche e demografiche crescenti e delle guerre, che sono le cause principali delle ondate di profughi che trattiamo come emergenze dovute all’attività di pochi criminali (gli scafisti, i mercanti di uomini). Le popolazioni sottosviluppate crescono troppo; ma col tempo rallenteranno e convergeranno con noi.
Il Rapporto Onu del 2015 sulla popolazione mondiale
Purtroppo la narrazione non è vera e il mondo reale si incarica di ricordarcelo ogni tanto con una certa durezza. La teoria della diffusione della ricchezza, del trickle down era fondata su misure empiriche di metà degli anni ’50. Ripetute oggi, danno il risultato opposto; e basta guardare cosa succede in America, anglosassone e latina, in Africa, dappertutto, per rendersene conto. Piketty lo ha dimostrato con una gran massa di dati sull’arco di un secolo, con la riduzione tra il 1930 e il 1970 e il forte aumento dal 1970 ad oggi. La ricchezza non si diffonde, si concentra. Lui ha chiamato la ricchezza Capitale nel titolo suggestivo del suo bel libro. Forse chi lo critica per questa scelta ha ragione: non tutta la ricchezza è capitale; e il capitale non nasce solo dalla ricchezza accumulata ma anche dal credito. Ma l’accesso al credito è maggiore per i più ricchi. La correzione spiega solo meglio l’origine della abissale e crescente differenza.
Il rapporto dell’Onu e Generazione 2030 (vedi link) dell’Unicef riguardano la convergenza (o la mancata convergenza) degli indicatori demografici. L’Onu aggiorna periodicamente le proiezioni della popolazione mondiale a medio, a lungo e a lunghissimo periodo (2030, 2050, 2100). La revisione attuale è motivata, in particolare, dalla divergenza tra gli andamenti previsti e quelli reali, in Africa soprattutto, e dalle critiche al metodo usato, in particolare nel rapporto a firma di Jean-Pierre Guengant e John F. May, della stessa Population Division dell’Onu.
L’aggiornamento è importante perché cancella, al momento, la rassicurante aspettativa della convergenza. Le popolazioni dell’Africa occidentale e orientale stanno crescendo a un ritmo più alto di quello stimato; le donne nigerine continuano a fare 7,3 figli ciascuna, addirittura più di prima, in compagnia delle nigeriane, delle somale, delle tanzaniane, delle etiopi, che ne fanno appena di meno. Proiettate al 2030, al 2050, al 2100, l’effetto congiunto del numero crescente delle potenziali madri e della maggiore fecondità porta al rovesciamento degli equilibri demografici mondiali. Metà dei bambini del mondo dovrebbe nascere in Africa; la transizione demografica, col dividendo che ne consegue, cioè con l’aumento percentuale della popolazione in età di lavoro, verrebbe rimandata; la situazione alimentare già drammatica tenderebbe a peggiorare; l’età mediana resterebbe molto bassa, o diminuirebbe. Gli 11,5 miliardi di esseri umani previsti a fine secolo, 4 di più di adesso, vi faranno impressione o no. Dovrebbero fare impressione a tutti la velocità e lo squilibrio.
Nulla garantisce, ovviamente, che il Rapporto attuale sia più vero di quello precedente. Ma è l’intero impianto delle Nazioni unite – gli obbiettivi del Millennio, gli aiuti, la sanità – che viene scosso; e basta a farlo ciò che succede ora, non tra 85 anni. La programmazione senza mezzi e senza poteri, ridotta a previsione, dipende dai dogmi enunciati in apertura. Se l’economia non cresce di per sé; se gli indicatori demografici ed economici non convergono, se le guerre si moltiplicano, la situazione è disperata. Socialisme ou barbarie, si diceva una volta. I governi non possono limitarsi a lasciar fare, devono formulare programmi, agire, per ridurre le diseguaglianze e lo sfruttamento, creando lavoro, distribuendolo, non concentrandolo su chi è costretto a sfinirsi, su chi lavora per poco o nulla.
Qualche osservazione meritano i metodi di misura, le ipotesi e alcuni dettagli dei due rapporti.
Le serie ben ordinate di numeri, in formato identico per il passato, il presente e il futuro, nascondono una grande incertezza. E già difficile fare i censimenti in Germania e in Italia, per la riservatezza, per la scarsa formazione dei rilevatori e il rifiuto dei cittadini. In Africa nessuno o quasi fa censimenti periodici. Se si fanno diventano strumenti politici e possono subire mutamenti del 100% (per esempio in Nigeria, che non è un piccolo paese). Si campiona; o si usano stime indirette, partendo dalle foto satellitari e da googlemaps, contando le case o le capanne, stimando o campionando le densità per unità abitativa.
Ancora più incerte le ipotesi di dipendenza della fecondità da quantità misurabili o prevedibili (istruzione, accesso ai contraccettivi) su cui si fonda la differenza tra proiezione ed estrapolazione. La critica, citata prima, di Guengant e May, riguarda l’uso esclusivo delle determinanti immediate (i contraccettivi), mentre potrebbero essere più importanti determinanti culturali indirette (numero di figli socialmente desiderabile, struttura della famiglia).
Il fatto centrale è però l’andamento reale, fino ad oggi, da cui discendono previsioni a breve. La Generazione 2030 è quella che nascerà in quell’anno, le cui madri sono già nate. Non si tratta di ipotizzare i comportamenti riproduttivi dei nipoti, che giustamente Livi Bacci ammonisce di non fare. Quelli che entreranno nel mercato del lavoro, a 15 anni, nel 2030, sono già vivi. E sono molti di più del previsto solo qualche anno fa.
Il Rapporto Generazione 2030
Generazione 2030 non è drammatizzante. I capitoli aprono con foto di bambine e bambini bellissimi, sorridenti. Non le foto orribili di uno spot di Save the children contro cui c’è una rivolta mondiale ma che continua ad andare in onda da noi. La vita che trionfa. Con le mortalità di 15 anni fa, sarebbero morti. Oggi sono vivi e bellissimi. Ma bisogna ricordarsi che quei bambini, in Niger, in Etiopia, ci sono. Non sono un’emergenza; sono una realtà in prevedibile, forse secolare, crescita. Noi, abitanti di paesi come l’Italia, in cui i circa 200.000 migranti nuovi ogni anno bastano a mala pena a mantenere la popolazione residente al livello attuale, o come la Germania, che è in declino malgrado l’immigrazione, faremmo bene a ricordare che i lavoratori in più generano ricchezza, non disoccupazione, se la politica sa metterli all’opera, come in passato è stato fatto. Ridurci a una continentale fortezza assediata, chiusa a difesa della rendita, fondata sul dogma che i soldi, non gli uomini, generano ricchezza; che meno si pagano i lavoratori più diventiamo ricchi; è una nostra tragica cecità. Con un po’ di solidarietà e di apertura forse potremmo convergere nell’unico modo credibile: fondendoci.
Pubblicato sulla rivista Gli Asini, settembre 2015
Fonte: inchiesta online
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