di Nicola Melloni
In Italia la parola riforme ha assunto un significato quasi salvifico. E’ una cosa in parte comprensibile, dato lo stato comatoso del nostro sistema politico ed economico. Allo stesso tempo, sono ormai venticinque anni che nel nostro paese si promettono, ed in effetti, si fanno, riforme – se così vogliamo chiamarle. I risultati sono stati normalmente calamitosi. Non si tratta di un fenomeno solo italiano. Il dogma delle riforme istituzionali è stato il cavallo di battaglia del neo-liberismo negli Anni ’90: dalla Russia post-Sovietica all’Africa fino all’America Latina, World Bank, IMF e il “meglio” dell’accademia anglo-sassone si sono affidati ad una ideologia riformatrice dogmatica, secondo la quale un certo set istituzionale ha effetti a prescindere dal contesto in cui viene implementato.
E secondo cui, dunque, basta copiare i modelli istituzionali vincenti per cambiare comportamenti poco virtuosi ed ottenere i risultati voluti.
E secondo cui, dunque, basta copiare i modelli istituzionali vincenti per cambiare comportamenti poco virtuosi ed ottenere i risultati voluti.
La teoria delle riforme dall’alto ha sottovalutato, quando non proprio ignorato i percorsi storici, le attitudini culturali, le istituzioni informali e, soprattutto, i rapporti di forza all’interno di un dato contesto politico. Non ha prestato attenzione alle cause del malfunzionamento istituzionale ma si è preoccupato solamente dei risultati insoddisfacenti. Non si è interessato al perché dei problemi ma solamente al come risolverli.
I risultati, neanche a dirlo, sono stati fallimentari: quel contesto politico-economico che doveva essere modificato dalle riforme ha, in realtà, modellato il funzionamento delle istituzioni stesse a proprio piacere.
L’insegnamento del passato
Ne dovremmo essere ben consapevoli in Italia dove si è cambiata la legge elettorale già due volte (tre con l’Italicum) e si è, da ormai di tre lustri, modificata la Costituzione in senso federalista. In tutti i casi si era promesso: maggiore governabilità; un rapporto più diretto tra eletti ed elettori; una politica più vicina ai cittadini; la diminuzione dei poteri delle segreterie di partito ed in generale delle oligarchie politiche. In sintesi una politica più efficiente e più efficace. Come noto, nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto.
Facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire il perché, giacchè la lezione del passato è ciò che dovrebbe guidarci per valutare i termini della riforma presente. Ad inizio Anni ’90, si è trasformata la legge elettorale proporzionale in senso maggioritario per garantire la stabilità dei governi e mettere fine al trasformismo politico, ai poteri di ricatto dei piccoli partiti e a governi sempre sotto scacco di una maggioranza parlamentare instabili. In verità, nonostante i problemi elencati fossero veri, la diagnosi di tale malattia era completamente sbagliata: se è vero che nella Prima Repubblica i governi cadevano in continuazione, è anche vero che la motivazione era spesso da ricercarsi nell’inerente instabilità ed eterogeneità del partito di maggioranza relativa, la DC, che divisa in correnti come era, scaricava le tensioni politiche interne sul governo.
Anche con la fine della Prima Repubblica, questi problemi si sono tutt’altro che risolti: lo sfaldamento di culture politiche tradizionali, come quella comunista e – in parte minore, appunto – democristiana hanno reso il sistema politico ancora più frammentato. Il maggioritario, invece di migliorare la situazione, l’ha peggiorata. La mancanza di due tradizioni partitiche stabili come ad esempio in Gran Bretagna, allora considerato il modello istituzionale vincete e quindi da imitare, unita ad un sistema che premiava solo il vincitore in ogni collegio, ha portato alla creazione di “accozzaglie” (per usare un termine caro al Premier), profondamente divise al loro interno ed in cui il potere degli attori minori era addirittura amplificato rispetto al proporzionale.
Dato il clamoroso fallimento di riformare il sistema politico – che ha continuato, invece, a perdere legittimità – si è pensato di trovare una nuova panacea nel federalismo. La non-responsività della politica si sarebbe risolta avvicinando il livello di governo ai cittadini, dando dunque maggiore possibilità di controllo democratico. Il problema che si era voluto ignorare, nuovamente, era però lo stato comatoso dei partiti politici, dominati da capi-bastone e sistemi clientelari che garantivano i voti che la mancanza di proposte politiche convincenti e – nuovamente – una cultura politica lacerata non permetteva di ottenere. Ovviamente il risultato è stato di aumentare i poteri di interdizione di personaggi come De Luca – oltre a portare verso il basso corruttele e malcostumi vari – indebolendo ulteriormente la legittimità politica e la famosa “governabilità” del Paese.
Una lezione non imparata
Le riforme attuali – tanto quella Costituzionale che quella elettorale – partono da un ragionamento simile a quelle del passato, e da una analisi altrettanto sbagliata. Renzi denuncia quello che è un ovvio problema: un Parlamento disfunzionale. La sua critica però si ferma a questo dato esteriore, non lo analizza, non ne cerca le cause. E pensa dunque che basti cancellare il bi-cameralismo perfetto per “far funzionare il Paese”. Ci viene raccontato che la “navetta” tra i due rami del Parlamento allunga il processo legislativo, che naturalmente è vero: senonché il problema non è legato all’assetto istituzionale quanto piuttosto ad un sistema partitico allo sbando, in cui gli interessi locali e/o personali dei parlamentari dominano sulla linea politica generale. Ci viene detto che in Italia non si fanno riforme, quando è piuttosto vero il contrario: la Seconda Repubblica è stata l’era delle riforme – delle pensioni, fiscale, della scuola, del mercato del lavoro, sanitaria e, per l’appunto, Costituzionale ed elettorale. Il problema è che queste riforme sono state quasi tutte pessime. E l’esecutivo presieduto da Monti, che ha goduto di poteri quasi emergenziali e con un Parlamento muto e ubbidiente, è stato tra quelli con il record peggiore in fatto di riforme – basti ricordare l’imbarazzante legge sulle pensioni della Fornero ed i milioni di esodati che essa causò.
Il malessere dell’Italia non nasce da governi incapaci di governare, è palesemente falso. E certamente non nasce dal bicameralismo. Il problema maggiore è la mancanza di legittimità della politica: e sembra, dunque, davvero bizzarro che si riducano gli spazi di rappresentanza, con un Senato non elettivo che aumenta i poteri delle segreterie di partito a discapito degli elettori; e con una legge elettorale contraddistinta da un premio di maggioranza inconcepibile in qualsiasi altra democrazia occidentale, che consegnerebbe la maggioranza ad un partito di poco più che minoranza.
La risposta che anche in Inghilterra o in Francia si governa con una minoranza relativa dei voti è un artificio retorico non corrispondente alla realtà. L’idea che il giorno delle elezioni si conoscerà il capo del governo non appartiene al concetto di democrazia rappresentativa. Può capitare che attraverso i meccanismi elettorali governi una minoranza, ma è solo uno dei casi possibili – d’altronde in Gran Bretagna si è avuto un governo di coalizione, in Germania si è discusso per mesi sulla composizione dell’esecutivo e pure in Francia, con un sistema ormai tripartitico è tutt’altro che scontato che ci sia una maggioranza parlamentare monocolore. In Italia, invece si vuole imporre un vincitore ex legee non ex voto, pensando di risolvere la crisi dei partiti con una legge elettorale.
Cambiare tutto per non cambiare niente
L’ideologia che permea queste riforme è quella della scorciatoia – un assetto istituzionale nuovo che tenta di risolvere gli effetti invece dalle cause del decadimento del Paese: un elettorato diviso (almeno) in tre da cui tirare fuori una maggioranza artificiale; un sistema politico frammentato che si cerca di ri-assemblare dando più potere alle segreterie di partito e riducendo gli spazi democratici; l’incapacità non di fare riforme, ma di fare riforme efficaci che ispira maldestri tentativi di cambiamenti istituzionali atti a rafforzare, chissà perché, l’esecutivo.
Il problema delle scorciatoie è che non funzionano ed anzi, di solito, peggiorano la situazione: in contesti in cui il primo vince tutto i partiti, già così deboli, sarebbero alla mercè di ras locali che controllano pacchetti di voti; l’azione dell’esecutivo ne risulterebbe intralciata invece che rafforzata; un sistema istituzionale non rappresentativo estranierebbe ancor di più i cittadini dalla vita politica, potenzialmente incoraggiando movimenti anti-sistema di varia natura; la concentrazione di potere nelle mani di pochi non risulterebbe in un esecutivo più efficace ma solamente più slegato dal rapporto di fiducia con gli elettori. Si tratterebbe di una svolta oligarchica senza nemmeno il pregio di essere efficiente. Insomma, una ripetizione del vecchio modello delle classi dirigenti italiane, ma non solo, per cui bisogna cambiare tutto – all’apparenza – per non cambiare nulla – nella sostanza – così da mantenere intatto un sistema di potere interessato soltanto alla sua sopravvivenza.
Fonte: MicroMega online - blog dell'Autore
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