di Salvatore Corizzo
A due giorni dal voto del 4 dicembre la campagna elettorale referendaria infuria su ogni giornale, televisione o blog online. A colpirci però sono gli endorsement per il SI, da Briatore a Schauble, da JP Morgan a l’OCSE. Quali sono i motivi che si annidano dietro al consenso verso il referendum da parte di esponenti di poteri forti nazionali e internazionali? Secondo studiosi del calibro di Weber, Marx e Polanyi il capitalismo in quanto “modo di produzione” necessita comunque di regole istituzionali che restano ad esso indipendenti e da questo punto di vista, nel secondo dopoguerra, il diritto costituzionale ha svolto la funzione di freno al potere politico-economico.
Dal '48 fino a metà degli anni 70, i principi fondamentali inseriti nella Costituzione sono stati a loro modo uno strumento utilizzabile dalle classi sublaterne e dalle loro organizzazioni di riferimento per porre un argine alle spinte autoritarie, e all’attacco ai diritti fondamentali e sociali portato avanti dalle classi dominanti. La riforma che si voterà fra pochi giorni vuole rompere defintivamente con quell’epoca; epoca in cui il capitale per poter governare era costretto a scendere a compromessi con le ragioni dei diritti civili e sociali affermati nelle piazze e nelle istituzioni dai settori sociali subalterni.
Nella nostra storia repubblicana ci sono stati molti tentativi – alcuni andati a buon fine e altri abortiti – di modificare la Costituzione, ma questa necessità di mettere mano all’impianto ordinamentale che determina e regola lo spazio politico-giuridico in cui viviamo, è diventata una vera e propria ossessione di tutti i governi (a precindere dal colore politico) che si sono succeduti dalla fine degli anni 90 in poi. Tale necessità è dettata dalla ratio della globalizzazione che ha sempre preteso sistemi decisionali e di governo in cui la sfera del politico e del giuridico sia permeata indissolubilmente dalle regole dell’economico, necessaria per superare la dinamica di compromesso che durante la seconda metà del novecento ha rallentato i progetti di ristrutturazione capitalista.
Tale tendenza è divenuta ancora più marcata dal biennio 2007-2008. Le politiche neoliberiste che hanno prodotto l’esplosione della crisi della finanza e del debito e le successive politiche messe in campo dagli attori politici durante la crisi hanno prodotto e producono tutt’ora degli effetti istituzionali. In questa fase politica, potremmo rovesciare l’assunto da cui partivano gli studiosi di cui sopra, e affermare che il neoliberismo produce le proprie regole giuridiche e crea le proprie istituzioni, ovvero modella quelle esistenti a proprio uso e consumo. Tale passaggio viene colto pienamente da Dardot e Laval in Del Comune o della Rivoluzione nel XXI secolo, quando definiscono il concetto di “metamorfosi del giuridico”, ossia: “La forma del capitalismo ed i meccanismi della sua crisi sono l’effetto contingente di alcune regole giuridiche [... ed è questo] ciò che in ultima istanza giustifica l’interventismo giuridico rivendicato dal neoliberalismo: [...] piuttosto che un modo di produzione economico, il cui sviluppo sarebbe presieduto da una logica agente alla stregua di un’implacabile «legge naturale», il capitalismo è un «complesso economico-giuridico» che ammette una molteplicità di figure singolari”. Si potrebbe affermare che in questo passaggio i due autori non aggiungono nulla di nuovo ad un dibattito che già in passato ha colto l’elemento della “giuridicizzazione dell’economico”, tuttavia, Dardot e Laval colgono un ulteriore aspetto: non soltanto il giuridico è diventato un momento dell’economico, ma le istituzioni politico-costituzionali al tempo del neo-liberismo vengono ormai utilizzate dai gruppi di potere economico-finanziario al fine di aprire nuovi spazi sociali alla libera concorrenza ed alla governance aziendalistico-imprenditoriale. Compito delle istituzioni al tempo del neo-liberismo, insomma, è diventato quello di dare fondamento e copertura giuridica alla libera azione degli attori economici, di creare cioè un framework regolamentare indispensabile a questi ultimi per massimizzare i loro profitti. Il taglio della spesa pubblica e la privatizzazione dei servizi pubblici come effetto dell’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, vanno in questa direzione.
Ecco il senso della riforma costituzionale, ed ecco il motivo dell’eccitazione degli attori politico-economici nazionali e sovranazionali.
Comprese le ragioni della riforma, si possono prevedere le conseguenze e le ricadute sociali della sua eventuale approvazione. Sembra chiaro che nella testa di chi ha pensato politicamente tale riforma vi sia un’idea di espropriazione della decisionalità del tessuto sociale (si pensi all'aumento delle firme per presentare leggi di iniziativa popolare e di fatto anche per promuovere un referendum, oppure si pensi al combinato disposto riforma-legge elettorale (italicum) in base a cui il partito che avrà una maggioranza relativa al primo turno e che poi si affermerà al ballottaggio, avrà il controllo del 54 percento dei seggi).
Più che di una novità, come propaganda il Presidente del Consiglio, si tratta di andare nella direzione di qualcosa di già visto, basti pensare a come funzionavano i parlamenti di ispirazione borghese durante l’800. Quest’ultimi, concepiti in ottica funzionalistica e di competenze, erano espressione di una sola classe (ovvero quella possidente e dominante) che determinava le scelte politiche solo in relazione ai propri interessi, e definiva un rapporto di dominio e controllo nei confronti delle classi subalterne. Da questo punto di vista, emerge un rapporto diretto tra povertà e negazione della rappresentanza, così come diretto è il rapporto tra democrazia e soddisfazione dei diritti sociali.
Il nodo della “partecipazione” e del condizionamento della decisione politica è il vero focus della riforma costituzionale. La giurisprudenza costituzionale italiana ha individuato due definizioni di “partecipazione”: la prima di natura restrittiva, la seconda estensiva. Secondo Massimo Luciani la partecipazione “coincide con la compartecipazione ai processi decisionali pubblici ovvero con l’assunzione di responsabilità decisionali pubbliche” e fa riferimento agli istituti della partecipazione in senso stretto (vari tipi di referendum, iniziativa legislativa popolare, petizione). La seconda definizione, facendo riferimento in particolare alla formulazione di Giuseppe Ugo Rescigno, ricomprende nel concetto di partecipazione “tutte quelle numerose forme e modi attraverso cui i cittadini, singolarmente o a gruppi, direttamente o indirettamente, prendono parte a processi decisionali dei pubblici poteri” e quindi lotte, cortei, conflitti, scioperi. Tale definizione interroga immediatamente il tema della “rappresentanza sociale”.
Bisogna ammettere che entrambe le definizioni sono da anni in crisi, in quanto le prassi politiche istituzionali ci consegano un quadro che mette in tensione gli elementi che le caretterizzano: commistione del potere legislativo ed esecutivo in capo al governo, parlamento svuotato della funzione di indirizzo politico, totale esautoramento delle minoranze parlamentari, governi non eletti e tassi di astensione elevati; e ancora, attacco ai corpi intermedi, svuotamento della contrattazione sociale (si pensi all’attacco al diritto di sciopero), attacco al diritto di manifestazione con inasprimento giudiziario. Tutti effetti di un processo di attacco alla partecipazione complessiva alla vita politica da parte dei ceti popolari, portato avanti dalle classi dirigenti. Ma se sino ad oggi gli effetti di cui sopra potevano ancora esser descritti come “storture” di un sistema democratico-liberale, in caso di riforma costituzionale tali effetti verrebbero considerati come normali, come esercizio di governance legittimo e funzionale.
Al di là del risultato referendario, in una fase politica in cui gli istituti della rappresentanza vengono modificati per precludere l’accesso o quantomeno per rendere innocuo l’esercizio della rappresentanza nei confronti delle classi popolari, il tema della rappresentanza sociale ci riguarda direttamente in quanto attivisti che cercano di cambiare l’esistente attraverso la politica.
Negli ultimi anni si è acceso un vivace dibattito intorno al concetto di democrazia partecipativa. Non dobbiamo ambire né ad un esasperante basismo che dietro l’informalità delle procedure è in grado di imporre decisioni nei confronti di una maggioranza, né a forme di partecipazione che esauriscono la partecipazione democratica dietro un clic sul pc. Il punto è essere in grado di individuare forme di partecipazione che possano diventare “costituenti”, e quindi ricercare una nuova normazione che nasca da conseutudini e pratiche che siano “sorgive”.
In questa ottica, il percorso nazionale di “non una di meno” ha dato un senso allo slogan “NO sociale e Costituente al Referendum”, ponendosi immediatamente il tema della rappresentanza sociale nel momento in cui la “politica” vuole rompere il legame diretto, sancito in Costituzione, tra decisione politica e rappresentanza sociale. Il percorso che ha portato alla “mareas” del 26 novembre e all’assemblea nazionale del giorno successivo, dal punto di vista della costruzione e del metodo, è stato in grado di mettere in piedi un processo di partecipazione che ben aderisce alla definizione estensiva di partecipazione a cui accennavo. Attraverso un metodo assembleare capillare, parole d’ordine e contenuti chiari, ha costruito un percorso di contropotere in grado di influenzare e irrompere nelle istituzioni provando ad imporre dal basso al governo la riscrittura di un “piano nazionale contro la violenza di genere”. Segnando un punto nella capacità di costruire momenti di contropotere e pratiche “costituenti” e “sorgive” in grado di riprendersi la decisione politica in “basso” nel momento in cui di nuovo “l’alto”, con questa riforma costituzionale, prova a restringere gli spazi di democrazia.
Pensare al 4 dicembre e oltre voltandosi indietro al 26 novembre è la strada da seguire per buttare giù il “sovrano” dal trono.
Fonte: communianet.org
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