di Carmine Tomeo
I commenti sulla morte di Fidel Castro portano a ragionare su come il concetto di dittatura possa essere interpretato nel senso comune. Le considerazioni che da sempre si fanno sul governo rivoluzionario cubano, che immediatamente dopo la morte di Castro si sono moltiplicate, mostrano palesemente come il concetto di dittatura possa essere frainteso nel senso comune, anche a sinistra quando questa è permeata dall'ideologia dominante. È facile, infatti, in questo caso, vedere in Cuba una dittatura e nelle cosiddette democrazie occidentali i luoghi dove si affermano democrazia e libertà.
Per chi, però, non ha rinunciato ai fondamentali del marxismo nella lettura della realtà, la questione dovrebbe essere abbastanza chiara: Gramsci ci viene in aiuto con la sua affermazione che "Ogni Stato è una dittatura". Certo, si dirà, ma a Cuba c’è stato finora, quasi fino alla sua morte, il solo Fidel Castro a capo del governo e non c’è pluralità di partiti e questo, dicono spesso i detrattori del Lider Maximo, non è democrazia, sopprime la libertà di partecipazione dei cittadini. Di nuovo, con Gramsci occorre rispondere che “il problema essenziale non è quello della personificazione fisica della funzione di comando. Il problema essenziale consiste nella natura dei rapporti che i capi o il capo hanno col partito della classe operaia, nei rapporti che esistono tra questo partito e la classe operaia: sono essi puramente gerarchici, di tipo militare, o sono di carattere storico e organico?”. La questione essenziale, quindi, diventa la comprensione “di tutto lo sviluppo storico della classe operaia”. [1]
Nessuno che guardi a Cuba senza pregiudizi può oggi negare che lo sviluppo storico della sua classe operaia ha avuto in qualche decennio un progresso che da questa parte del mondo spesso ancora agogniamo. In pochi decenni la rivoluzione cubana ha assicurato alle classi popolari dell’Isola quei diritti sociali, economici e culturali che i democratici Paesi liberali stanno progressivamente sottraendo dalle disponibilità delle classi sociali più deboli. Esistono delle contraddizioni nello sviluppo storico della classe lavoratrice cubana, nella sua lotta di emancipazione dall’imperialismo capitalista? Certo e non può essere diversamente. Doverlo affermare suona anche ridicolo, considerando quanto questa considerazione è banale. Ci sono state ed esistono contraddizioni che riflettono anche il contesto nel quale la rivoluzione cubana fu costretta ad agire: le classi possidenti e mafiose presenti sull’isola, gli attentati alla rivoluzione ed ai suoi capi carismatici, l’embargo, contano o no qualcosa nel processo rivoluzionario e nella possibilità di affrontare e risolvere inevitabili contraddizioni che il processo storico pone di fronte? Il problema di chi critica Castro, soprattutto da posizioni genericamente di sinistra, molto spesso è proprio qui: pensare che in una rivoluzione sociale non debbano esserci contraddizioni. Un sogno da fiaba, qualcosa che attiene non tanto ad una analisi della realtà e della fase storica entro la quale si sviluppa, ma piuttosto alla favola disneyana di Cenerentola, dove per magia le ingiustizie si risolvono. Invece i giudizi che si traggono, per essere seri, devono partire dalla realtà concreta, non da quella che a uno piacerebbe che fosse, altrimenti si commette sempre un errore infantile.
In occasione della visita del presidente Usa, Barack Obama a Cuba, una giornalista fece a Raul Castro la scontata domanda sulla violazione dei diritti umani. Il presidente del Consiglio di Stato cubano rispose facendo notare che "i diritti umani identificati dalle organizzazioni internazionali” sono 61 e che non esiste alcun Paese che li rispetti tutti. Ma “Cuba di questi 61 ne rispetta 47. Altri molti meno”. Raul Castro sottolineò che a Cuba si rispettano “i diritti umani del garantire la salute a tutti quanti, così come l'istruzione libera e gratuita”. “Lei trova giusto che una donna guadagni meno di un uomo? - chiese a quel punto Raul Castro - Non è anche questo un diritto umano? Potrei farle molti esempi di paesi che non rispettano questi diritti”.
A questo punto potrebbe intervenire ancora il puntiglioso opinionista, anche di quella sinistra che si è liberata delle ideologie novecentesche, che ti fa notare come però i diritti sociali sono niente senza la libertà. Spesso e volentieri detta così: “libertà”, senza alcun complemento, cioè senza specificare libertà da chi o da cosa. Che poi, se scavi poco poco, ti accorgi che quella che viene rivendicata è la libertà di non avere interferenze nel fare quello che si vuole; nel cercare di ottenere quello che si desidera senza che altri interferiscano. Una libertà che ha molto a che fare con il liberalismo e senza contare che spesso si tratta di desideri costruiti attorno alla gabbia dorata capitalista. Una libertà che si traduce nel vecchio adagio per il quale "la libertà di un individuo finisce dove inizia la libertà altrui". Insomma, quella libertà negativa che Marx criticava perché si tratta di “libertà dell'uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa”. Sono, cioè, le libertà “dell'uomo egoista, dell'uomo separato dall'uomo e dalla comunità” e alla fine, in una società che più che comunità “appare piuttosto come una cornice esterna agli individui”, l’unico legame tra gli individui “è la necessità naturale, il bisogno e l'interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica”. [2]
Eccola la libertà che vengono rivendicate quando si addita Cuba ad una dittatura nel senso comunemente dato al termine. La libertà che certamente non ti nega la possibilità di imprecare, che non ti vieta di scegliere tra due prodotti sullo stesso scaffale in un supermercato, che non ti proibisce di acquistare merci 24 ore al giorno, che ti consente di sfogare una frustrazione contro il governo in 140 caratteri. Ma una libertà che, in ultima analisi, tiene egoisticamente uniti il bisogno di lavoro all’interesse privato del padrone, la precarietà lavorativa al profitto d’impresa, la necessità di avere un tetto sotto il quale dormire e la speculazione edilizia, il bisogno di curarsi e lo svuotamento della sanità pubblica a favore di quella privata.
A Cuba, al contrario, la rivoluzione ha cercato di superare questo legame tra bisogno e interesse privato. Quella che con disprezzo viene chiamata “dittatura castrista” in pochi decenni ha garantito al popolo cubano e migliaia di persone latinoamericane il diritto gratuito al lavoro, alla sanità, all’istruzione, alla casa, all’alimentazione, allo svago. A Cuba, la rivoluzione socialista ha sottratto i diritti essenziali dalla mercificazione, cioè li ha sottratti dalla egoistica disponibilità di pochi privilegiati, come invece avviene nei nostri democratici e liberi Paesi, dove la libertà è anche libertà di fare profitto sui bisogni essenziali di uomini e donne comuni. Quello che è stato fatto a Cuba dagli anni ‘50 del secolo scorso fino ad oggi, e nonostante un criminale embargo imposto dagli Usa e servilmente accettato dai Paesi a capitalismo avanzato, non è riuscito a farlo nessuno Stato democratico occidentale: sottrarre le classi popolari dal bisogno, emanciparle dall’interesse privato. “E le libertà che abbiamo noi?” si chiederà qualcuno, anche della sinistra dirittocivilista che con troppa disinvoltura separa nettamente conquiste sociali e libertà. Già, le libertà che abbiamo noi. Andate a chiedere ai cinque operai licenziati dalla Fca di Pomigliano per avere criticato il metodo Marchionne di relazioni industriali, quale valore abbia la libertà formale di poter esprimere un’opinione; andate a chiedere ad un pensionato quante volte è stato costretto a rinunciare al suo diritto di cura perché con la sua pensione deve scegliere se mangiare o comprare le medicine; andate a chiedere al figlio di un operaio quali sacrifici sono necessari (e spesso non bastano) per poter studiare; andate a chiedere ad un disoccupato quanto si è sentito libero quando è stato costretto a viaggiare all’estero nella speranza di trovare un lavoro. Andate chiedere quale libertà di voto ha una persona in stato bisogno, quando lo avvicina un candidato anche a consigliere comunale per promettergli che lo aiuterà a trovare un posto di lavoro o lo aiuterà ad ottenere una casa popolare.
A Cuba - pur con limiti inevitabili - si è riusciti a emancipare le classi popolari da quello stato di bisogno che fanno restare le libertà e i diritti nell’ambito di principi solo scritti sulla carta, abbandonati alla formalità. A Cuba lo Stato non si è limitato a proclamare “ciascun membro del popolo partecipe in egual misura della sovranità popolare”, senza riguardo a “differenze di nascita, di condizioni, di cultura, di professione, dichiarando che nascita, condizione, cultura, professione non sono differenze politiche” [3]. La rivoluzione cubana ha riconosciuto quelle differenze come sostanziali per l’esercizio dei diritti e della libertà di ognuno e le ha rimosse, consapevole che laddove quelle differenze restano tali, sono gli interessi privati ed egoistici ad operare e a far crescere differenze sociali e sottomissioni, spesso a costringere le classi popolari a rinunciare a diritti e a libertà essenziali.
Mentre ci crogioliamo delle nostre false libertà, mentre ci riempiamo la bocca di una democrazia svuotata, a Cuba la rivoluzione socialista ha posto fondamenta e pilastri per una per una vera democrazia: quella che, fondandosi sull’emancipazione dallo stato di bisogno, pone ognuno nella condizione di persona libera di partecipare “all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese” [4]
Quella libertà, qui in Italia, è finora rimasta quasi soltanto sulla carta, all’articolo 3 della Costituzione repubblicana, praticamente inapplicata perché la nostra falsa democrazia non è stata capace di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”, che, “limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini” impedisce una vera partecipazione democratica alla gestione ed all’organizzazione del Paese, seppure questo sia un preciso compito dello Stato. Quella libertà di partecipazione democratica, qui in Italia, la si vuole addirittura impedire definitivamente facendo passare una controriforma costituzionale regressiva dal punto di vista delle libertà e dei diritti sostanziali delle classi popolari. Siamo sicuri di poter insegnare ai cubani cos’è la democrazia, il significato di libertà e come dev’essere una rivoluzione? Evidentemente no. Ed i milioni di persone che hanno reso l'ultimo omaggio a Fidel Castro al memorial José Marti dell'Avana, sono probabilmente la dimostrazione più evidente che non possiamo essere noi maestri di democrazia e libertà per Cuba e per il suo popolo.
[1] A. Gramsci, “Capo”, L'Ordine Nuovo, 1° marzo 1924
[2] K. Marx, La Questione Ebraica, Editori Riuniti, 1978
[3] Ibidem
[4] Costituzione della Repubblica italiana, Principi fondamentali, articolo 3
Fonte: La Città Futura
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