di Tommaso Di Francesco
Le immagini e le voci che giungono da Cuba sono inequivocabili. Milioni di persone di ogni età aspettano la carovana con le ceneri di Fidel e danno il loro personale e collettivo addio all’uomo che considerano giustamente come il leader che ha difeso, a caro prezzo, l’indipendenza dell’isola e quelle che possiamo definire come le difficili, minime quanto straordinarie, conquiste in campo sociale. Mentre tutto questo accade, una miriade di altisonanti tromboni di destra e di ex sinistra si scatena in un nuovo gioco: aprire nuove baie dei Porci, lanciando vere e proprie aggressioni verbali e scritte.
Prima di tutto al buon senso e alla verità storica. L’invasione della Baia dei Porci fu, nel 1961, il tentativo dell’Amministrazione Usa di abbattere il giovane potere rivoluzionario dell’Avana, fallito per la sollevazione armata del popolo cubano. Ora quella baia sembra tornare d’attualità. Il fatto è che a distanza di quasi sessanta anni a Fidel non riescono a perdonare l’avere garantito che Cuba non diventasse misera come Haiti e che, nel cortile di casa degli Stati uniti, non venisse aggregata senza identità e dignità come Porto Rico alle altre stelle americane; non riescono a perdonarle che l’affermazione della rivoluzione cubana sia stata d’esempio per l’intero continente, latinomaericano che, negli anni Settanta subì l’intervento militare dei golpisti locali supportati dall’Occidente «democratico», Usa in prima fila a ordire il massacro del Cile di Allende e a coordinare le stragi sanguinose del Plan Condor.
Un continente intero che poi si riscattò con un dispiegarsi di movimenti, dal Brasile al Cile, dal Venezuela all’Argentina e alla Bolivia che, arrivati al potere, realizzarono cambiamenti epocali del potere e delle condizioni sociali di milioni e milioni di esseri umani. Certo ora i governi di quella svolta sono dappertutto in crisi, ma la transizione dai golpe alla democrazia è potuta accadere fra l’altro avendo Cuba come punto di riferimento. Non gli perdonano a Fidel anche il fatto di avere sostenuto in Africa le lotte dell’Anc di Nelson Mandela contro l’apartheid e quelle anticoloniali in Angola, Mozambico e Guinea Bissau.
Non gli perdonano in buona sostanza l’avere dimostrato che «ribellarsi è giusto». Per questo Obama e quasi tutti i leader europei non vanno ai funerali di Fidel (come non va Putin per «rispetto» al neoeletto Donald Trump).
E sfottono sulla libreta, la carta annonaria cubana che dà diritto ai beni alimentari essenziali, non sapendo che negli avanzati Stati uniti 30milioni di persone vivono con la più semantica food card; sfottono sulla egualitaria sanità cubana, dimenticando che a soli 6 km dalla Casa bianca, a Washington, nel famigerato e nascosto ghetto nero di Anacostia c’è una così alta mortalità infantile da essere denunciata nelle statistiche di Save the Children e delle Nazioni unite; strillano sui diritti umani ma scordano che il campo di concentramento di Guantanamo – base militare Usa in terra cubana – è una vergogna del mondo e di ogni diritto internazionale che si rispetti.
Sono queste aggressioni ignoranti le nuove invasioni della baia dei Porci.
Detto questo però, per noi resta decisivo un ragionamento. Se non vogliamo avere un atteggiamento solo celebrativo, dobbiamo considerare che non sarà la nostra solidarietà verbale a salvare dal nuovo isolamento a cui Cuba sarà di nuovo costretta per l’avvento di Trump – meraviglioso prodotto del disastro democratico statunitense. Solo una capacità di critica positiva delle trasformazioni realizzate a Cuba come delle difficili, contraddittorie riforme avviate da Raúl Castro, sosterrà lo sforzo di continuare quell’esperienza rivoluzionaria. E insieme solo la ripresa di una iniziativa politica e di movimento per la trasformazione radicale del potere e del modello di sviluppo qui, nelle cittadelle avanzate del capitalismo, in Occidente, potrà rompere una logica rituale e immobile per fare dell’addio a Fidel Castro una testimonianza concreta di nuovo impegno. Hasta siempre.
Fonte: Il manifesto
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