di Anna Fava
Recentemente Gaetano Azzariti ha delineato la differenza tra due generi di democrazia: da un lato sistemi democratici «pluralisti, partecipativi e parlamentari. Strutture di potere reale che favoriscono l’apertura e la contaminazione tra stato apparato e società civile». Dall’altro lato democrazie chiuse che «puntano essenzialmente a garantire la governabilità e vedono la partecipazione solo come un intralcio». Se fosse approvata, la riforma costituzionale Renzi-Boschi sancirebbe lo slittamento del nostro Paese verso questo secondo tipo. Ma era questo il progetto politico che ha animato la stagione costituente inauguratasi a seguito della vittoria contro il nazifascismo?
La società immaginata dal fascismo partiva dall’assunto dell’omogeneità. Una società ben funzionante doveva essere omogenea e concorde. I conflitti interni andavano neutralizzati in via preventiva attraverso la massificazione culturale, in via “terapeutica” attraverso l’olio di ricino della repressione.
La società immaginata dal fascismo partiva dall’assunto dell’omogeneità. Una società ben funzionante doveva essere omogenea e concorde. I conflitti interni andavano neutralizzati in via preventiva attraverso la massificazione culturale, in via “terapeutica” attraverso l’olio di ricino della repressione.
È per questo che il modello di società immaginato dai nostri costituenti si opponeva polemicamente a quello fascista, difendendo l’idea di una società plurale e eterogenea, fatta di razze e generi diversi, di diverse opinioni politiche e fedi religiose. Una società – di conseguenza – fisiologicamente percorsa da conflitti. Conflitti necessari alla dinamica stessa della democrazia e che il disegno costituzionale non s’impegnava a sedare, bensì a organizzare sul piano di seconda natura per eccellenza: quello del diritto. L’idea stessa di resistenza all’abuso del potere è contenuta nella nostra Costituzione: la garanzia dell’equilibrio delle istituzioni e il pluralismo parlamentare, la libera articolazione democratica in partiti, il diritto di sciopero per tutte le lavoratrici e i lavoratori, il riconoscimento delle libertà e la tutela delle differenze sono declinazioni di una visione politica in cui il potere doveva essere diffuso nell’interesse di tutti e non di pochi.
La riforma renziana reca un’impronta culturale opposta. Essa è mossa da un obiettivo dichiarato: neutralizzare il conflitto così da velocizzare la decisione. Risparmiare tempo e denaro: è questo il motto portato avanti dai fautori del Sì. La sfera politica viene declinata secondo parametri di efficienza aziendalistica: tagliare i parlamentari per assicurare risparmio ed efficienza. Per raggiungere questo fine essa stravolge il Senato, della cui elettività sarebbero privati tutti i cittadini, abolisce le Province (ma non le Città metropolitane che rappresentano il nuovo organo di raccordo non elettivo tra Comuni e Regioni). Modifica il Titolo V accentrando nello Stato non solo le materie sciaguratamente decentrate con la modifica costituzionale del 2001, ma anche quelle assegnate alle Regioni dalla Costituzione del 1948; con la clausola di supremazia consente al governo di intervenire autoritariamente in ogni materia possibile, anche se di non sua competenza. Consente il commissariamento degli enti locali che non siano riusciti a obbedire ai vincoli di bilancio, rafforzando l’aggressione alla democrazia sociale portata a termine da Mario Monti con la modifica dell’articolo 81. Introduce l’approvazione entro settanta giorni da parte della Camera dei provvedimenti ritenuti indispensabili dall’esecutivo.
Ciò che deriva dall’impianto complessivo di queste numerose modifiche, che hanno stravolto ben 47 articoli della Carta, è uno sbilanciamento dell’equilibrio dei poteri a favore di un accentramento del potere nell’esecutivo. Anche la nuova legge elettorale si muove nella stessa direzione: garantire a una presunta maggioranza, costruita artatamente attraverso un premio abnorme, la possibilità di rendere inoffensiva ogni opposizione. «Chi dice che la maggioranza ha sempre ragione – scriveva Pietro Calamandrei nel 1948 – dice una frase di cattivo augurio, che solleva intorno lugubri risonanze; il regime parlamentare, a volerlo definire con una formula, non è quello dove la maggioranza ha sempre ragione, ma quello dove sempre hanno diritto di essere discusse le ragioni della minoranza. […] Si dirà che questo idilliaco quadro del governo parlamentare pecca di ingenuo ottimismo. E sia pure. Ma insomma, chi vuol sul serio il sistema parlamentare non può concepirlo che così: altrimenti del Parlamento resta solo il nome sotto il quale può anche rinascere di fatto la “Camera dei fasci delle corporazioni”». Una neutralizzazione del conflitto equivale a una spolicitizzazione del sistema democratico partecipativo, con il conseguente arroccamento in un regime chiuso in cui, per dirla con Rousseau, ogni cittadino sarà libero una volta ogni cinque anni. «Se la Costituzione – ha affermato Geminello Preterossi – non è più un progetto politico di dignità sociale che reclama effettività, se la democrazia non è più confronto sui fini, ma la maschera dell’oligarchia tecnocratica, è la nostra civiltà costituzionale a essere in questione, perché non sarà possibile né il governo effettivo dei conflitti, né una reale connessione tra governanti e governati».
Questo referendum, viceversa, può essere l’occasione per portare al centro del dibattito il funzionamento del sistema democratico al fine non di smantellarlo come vorrebbe la riforma renziana, ma di incrementarlo. Il giorno successivo alla vittoria del No, il grande fronte di riflessione e resistenza che si è aperto a sinistra dovrà lavorare per ragionare sulle forme della partecipazione, affinando gli strumenti esistenti e inventandone di nuovi: bilancio partecipato, débat public, assemblee di quartiere, uso civico urbano sono alcune delle forme di democrazia partecipativa che si stanno sviluppando sul territorio nazionale e non. Forme che intensificano il paradigma democratico mirando a ridurre la distanza tra cittadini e istituzioni, per attuare, attraverso la sempre più larga partecipazione di tutte e tutti alla vita politica, una democrazia non solo politica ma anche sociale ed economica.
La partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, infatti, è tra i principali obiettivi che la Costituzione assegna alla Repubblica (art. 3), che ha il dovere di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e materiale che impediscono la realizzazione di questo progetto. Durante una seduta dell’Assemblea costituente Lelio Basso affermò che senza la concreta partecipazione la «Repubblica democratica» si sarebbe ridotta a un flatus vocis, nel senso che «se questa partecipazione non si realizza e nella misura in cui non si realizza, non si realizza neppure la democrazia». È ora di ridare voce ai cittadini, attuare i diritti, realizzare la democrazia partecipativa, e la vittoria del No può essere un punto di partenza per farlo. Un “No attivo”, come ha scritto Gianni Giovannelli, che non si limiti alla difesa dei diritti acquisiti ma che miri ad (attualizzare per) attuare le promesse di partecipazione racchiuse nella Carta e mai finora dispiegate dal potere costituito. Promesse “sottorivendicate”, che contengono la sedimentazione di un potenziale politico che potrebbe liberare nuove energie. Parafrasando una poesia di Thomas Stearns Eliot: the No is where we start from.
Anna Fava fa parte della Società di studi politici di Napoli ed è attivista nelle lotte ambientali e per i beni comuni. Ha recentemente curato il libro “Costituzione! Perché attuarla è meglio che cambiarla” (Einaudi) di Salvatore Settis.
Fonte: Effimera.org
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