di Guido Liguori
Negli anni in cui Pietro Ingrao pubblica Masse e potere prima, nel 1977, e poi, l’anno seguente, il libro-intervista Crisi e terza via, con la intelligente interlocuzione di Romano Ledda e con la amichevole collaborazione di Pietro Barcellona, egli occupa un ruolo di grande prestigio e importanza: è presidente della Camera, la terza carica istituzionale dello Stato italiano.
Ma il ruolo – pur così rilevante, e ricoperto con grande correttezza e riconosciuta sensibilità per tutte le componenti del Parlamento – non limita la tensione politica di Ingrao. Egli non si fa «rinchiudere» entro i confini del suo ruolo ma seguita, da presidente della Camera, a incontrare operai, studenti, associazioni democratiche: masse organizzate di donne e uomini che cercano di agire per trasformare il mondo. E continua a riflettere sullo Stato, le istituzioni e la società, sul rapporto tra il potere e le classi e i movimenti, animato dalla stessa domanda di sempre: quale rapporto istituire tra il potere e le masse, per ampliare la partecipazione e per creare le condizioni di una effettiva democratizzazione della politica e, dunque, dell’economia e della società? (…)
Balza subito agli occhi, leggendo i testi, come nella sua analisi Ingrao non accetti la dicotomia Stato-società civile, che struttura tanta parte del dibattito anche di questi ultimi anni e che ha una forte impronta liberale. Anche un intellettuale di grande statura e aperto al dialogo come Norberto Bobbio, col quale Ingrao a lungo incrocia la lama della disputa teorica, culturale e politica, resta interno a questo limite.
Ingrao invece – pur tanto attento a ciò che nella società si muove – parte da Gramsci e dal concetto di «Stato allargato», o «integrale»: una visione dialettica del nesso Stato-società, sfere della realtà profondamente connesse e in cui agiscono gli stessi soggetti collettivi: le classi, i gruppi sociali, i movimenti, i partiti, gli aggregati di interessi e di idee.
Ingrao invece – pur tanto attento a ciò che nella società si muove – parte da Gramsci e dal concetto di «Stato allargato», o «integrale»: una visione dialettica del nesso Stato-società, sfere della realtà profondamente connesse e in cui agiscono gli stessi soggetti collettivi: le classi, i gruppi sociali, i movimenti, i partiti, gli aggregati di interessi e di idee.
La centralità del ruolo dello Stato – tanto forte nel Novecento – è esplorata con forte senso critico: lo Stato dà luogo a una azione economica estesa ma anche subalterna e funzionale alla classe dominante. Non solo: esso – scrive Ingrao – tende a inglobare partiti e sindacati, cercando di neutralizzare così l’azione innovatrice delle masse, che chiedono di cambiare a vantaggio dei molti gli equilibri economici e politici del Paese. Per evitare questa azione di resistenza conservatrice delle istituzioni statuali occorre che il partito delle classi subalterne, il partito comunista, non si confonda in toto con lo Stato, non perda il suo impeto trasformatore e il suo carattere di anticipazione e di progetto, il suo «spirito di scissione», per usare le parole di Gramsci. L’orizzonte, la meta cui tendere, è per Ingrao la socializzazione della politica, per dare concretezza alla democrazia. (…)
Ingrao vede in questo processo di diffusione e socializzazione della politica una grande occasione per sostanziare la stessa democrazia rappresentativa. Non si tratta – nella sua visione – di riproporre una ormai antistorica contrapposizione tra democrazia delegata e democrazia soviettista, ma di ricercare i soggetti e le forme tramite cui allargare i confini della democrazia parlamentare esistente, intrecciando istituzioni più tradizionali e nuovi organismi, voto e partecipazione diretta, partiti e movimenti, allo scopo di organizzare la mobilitazione politica che viene dal basso e di riassorbire gradualmente il principio della delega a un ristretto corpo di politici di professione o comunque professionalizzati dalla consuetudine, in una partecipazione politica di massa e permanente.
«Democrazia di massa», la chiama Ingrao, o «democrazia di base», specificando sia le differenze con la «democrazia diretta», sia il fatto che gli organismi di questa democrazia di base dovrebbero essere intesi come «veri e propri momenti istituzionalizzati di intervento e di decisione, che si collegano e si intrecciano alla vita delle grandi assemblee elettive, in modo da assicurare una presenza diffusa e organizzata delle masse, dando un colpo alla separatezza e al verticismo delle assemblee e degli stessi partiti politici. Dunque: un intreccio organizzato tra democrazia rappresentativa e democrazia di base, che favorisca la proiezione permanente del movimento popolare nello Stato, trasformandolo». Democrazia di base e democrazia rappresentativa sono complementari, Ingrao lo ribadisce in polemica con Bobbio e richiamando tutti i limiti della democrazia rappresentativa, se essa resta solo imperniata sul «cittadino astratto».
Una visione utopica, sembrerebbe oggi. Ma, allora, una aspirazione e una ricerca di massa, quella della partecipazione politica e della democrazia di base – una esperienza che certo venne poi sconfitta, ma che riguardò per un decennio e più milioni di persone alla ricerca di una democrazia non solo formale o addirittura fittizia, e comunque non limitata al giorno delle elezioni. In questa ricerca di una democrazia diversa, più partecipata e diffusa, che nella storia del Pci del primo e anche del secondo dopoguerra aveva importanti precedenti, che non a caso Ingrao richiama e valorizza, egli fu certamente uno dei politici, dei dirigenti e dei teorici più impegnati e convinti.
Negli scritti di Masse e potere costanti sono la affermazione della necessità di una «socializzazione della politica», per dare «concretezza alla democrazia» e procedere verso un «ordine nuovo»; la consapevolezza che la esaltazione della «spontaneità» (tanto diffusa in quegli anni) è una illusione perdente e che la carica innovativa deve attraversare le istituzioni non meno che la società; il riferimento a una necessaria riforma dello Stato, vista anche come «la principale riforma economica da realizzare». Lo Stato, per le forze che si battono per una sua profonda trasformazione, è luogo della lotta e insieme posta di questa lotta.
Ingrao riporta sempre i problemi politici alle loro radici sociali, e contemporaneamente illumina il ruolo dello Stato moderno nel determinare la stessa composizione di classe, ed egli lo fa senza mai cedere né alla tentazione della «autonomia del politico», né a quella, speculare, della «autonomia del sociale». (…)
Masse e potere e Crisi e terza via appartengono a un tempo che per molti aspetti oggi appare lontano. Eppure questi libri sono ancora ricchi di insegnamenti, perché in primo luogo fotografano, sia pure in una temperie storica tanto diversa, la crisi della democrazia rappresentativa, che oggi si è ulteriormente accentuata.
Hanno prevalso a partire dagli anni Ottanta, ma ancor più in Italia negli anni della cosiddetta «seconda repubblica», quelle posizioni politico-culturali che già prima (si pensi alle indicazioni della celebre «Trilateral Commission», fondata nel 1973 da David Rockefeller, Henry Kissinger, Zbigniew Brzezinsk e altri, o – se si preferisce – ad alcuni punti del celebre “programma” della P2 di Licio Gelli) lamentavano un «eccesso di democrazia» – espressione che di per sé presuppone una valutazione negativa della democrazia stessa – e la necessità di un maggiore accentramento del potere politico nell’esecutivo (risultato tenacemente perseguito nel nostro paese e realizzato con il concorso di tutti gli ultimi governi), a scapito del ruolo del Parlamento e ancor di più della reale partecipazione alla vita politica delle masse.
Ingrao crede nella centralità del Parlamento, affiancato dagli organismi della democrazia di base, e invoca «più politica», una politica diffusa in tutto il corpo sociale. La sinistra prenderà invece una strada del tutto diversa, che avrà come tappe la fine del Pci e della idea stessa di un partito di massa, l’approdo al sistema elettorale maggioritario (quello duramente combattuto dai comunisti ai tempi della «legge truffa»), la personalizzazione della politica, l’accettazione del principio del rafforzamento dell’esecutivo.
Erano dunque quelle di Ingrao semplici «utopie», mere illusioni? Era un «volere la luna»? Una idea politica – in questo caso l’idea di una democrazia partecipata e diffusa, strada per avanzare verso l’autogoverno politico, economico e sociale – viene spesso definita in questo modo quando viene sconfitta. E, senza dubbio, nella congiuntura storica degli anni Ottanta e Novanta ha vinto una diversa egemonia, un diverso «blocco storico», fatto di interessi e ideali opposti rispetto a quelli per i quali ha lottato per tutta la vita Ingrao.
Non per questo le contraddizioni che egli indicava sembrano superate. «Non basta un libro a fare una rivoluzione», afferma il nostro autore, ed è sicuramente vero. Serve che, sulla spinta di determinate contraddizioni, masse di donne e uomini maturino convincimenti collettivi, si organizzino, credano e lottino per cambiare «lo stato di cose presenti», come scrive Marx. Non mancano oggi i segnali che vanno in questa direzione, anche in Europa. Per chi vorrà contribuire a tale ricerca e a tale lotta, le idee, i libri, l’esempio di Pietro Ingrao sono ancora estremamente preziosi.
Nota: quanto pubblichiamo è un estratto dalla Introduzione di Guido Liguori a P. Ingrao, «Masse e potere. Crisi e terza via» (Editori Riuniti, 2015, pp. 354, euro 23,50), un volume che raccoglie due dei più noti libri degli anni Settanta. Il volume, nei prossimi mesi in libreria, è già reperibile presso il sito www.editoririuniti.it.
Fonte: il manifesto
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