di Pietro Ingrao
Si fa fatica, con le fiamme della guerra che divampano ancora in una zona cruciale del mondo e ogni giorno accompagnano notizie di morti o rapiti o scomparsi, sì, si fa fatica a ragionare su un confronto complicato (e su un voto) che si è svolto settimane fa in Senato, a riguardo di una proposta di modifica da apportare a un Articolo (precisamente l’Articolo 88) della Costituzione repubblicana. Il pensiero di tanti — italiani e non — è volto ai morti, ai caduti, agli scontri amari e atroci che insanguinano quei siti che fanno quasi da giuntura tra continenti: tra la densa Europa e la sterminata Asia. Eppure nelle settimane passate si sono avuti un dibattito e un voto in Senato che non consigliano silenzi, perché riguardano spostamenti di fondo negli assetti istituzionali della Repubblica, e nella configurazione di poteri che essi fissano.
In concreto si tratta di una modifica che la maggioranza berlusconiana del Senato ha apportato all’Articolo 88 della Costituzione della Repubblica. È un articolo brevissimo, che recitava così: «Il Presidente della repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse. Non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato».
È un testo asciutto, persino scarno. Ma la sua importanza è platealmente evidente, trattandosi della sorte o meno degli organi assembleari, nelle cui mani è consegnata tanta parte delle decisioni pubbliche e — con esse — limiti e poteri delle supreme autorità dello Stato.
Allungando un po’ lo sguardo, si può dire che in quelle righe dell’articolo 88 si tracciano strade e si pongono paletti, entro cui può o non può più vivere un Parlamento: il luogo in cui si elaborano o si mutano le leggi, e si scrivono le regole che accompagnano e vincolano milioni di italiani e la loro esistenza quotidiana.
Allungando un po’ lo sguardo, si può dire che in quelle righe dell’articolo 88 si tracciano strade e si pongono paletti, entro cui può o non può più vivere un Parlamento: il luogo in cui si elaborano o si mutano le leggi, e si scrivono le regole che accompagnano e vincolano milioni di italiani e la loro esistenza quotidiana.
Insomma: si parla del magistrato supremo dello Stato, ma anche — nei loro ruoli — di ciò che possono fare i Parlamenti, e del loro spegnersi oppure continuare nella loro esistenza. E in quel testo si fissano anche vincoli temporali entro cui lo stesso capo dello Stato può esercitare oppure no il suo potere di scioglimento. In quell’articolo 88 (e in altri) dunque si definisce una trama di vincoli rigorosa nella sua stessa scarna asciuttezza. E si indica una scala di poteri, che tende a fissare e garantire una maglia articolata di decisioni: dunque orientata chiaramente contro una struttura assolutistica e di concentrazione del potere.
Si comprende, si avverte facilmente che questa articolazione di poteri è frutto di una dura e amara memoria dell’assolutismo fascista; e perciò la vita, gli atti, la prassi delle strutture supreme dell’ordinamento pubblico sono ordinati in maniera decisamente orientata a una costruzione pluralistica dello Stato e della sua prassi.
Di qui nasce lo stupore e l’allarme di fronte alla grave svolta avvenuta in Senato in direzione di una nuova scura concentrazione di potere (indicata col nome di «premierato forte»), che punta a una pesante preminenza del presidente del Consiglio o — per stare al nuovo linguaggio in voga — del premier.
Non è proprio un evento improvviso, e anzi — anni fa — qualcuno nelle stesse file del centro-sinistra qualche seria agevolazione per spianare questa strada la dette. Ma è indubbio che l’innovazione, a cui ha schiuso il cammino il voto del Senato, è per Silvio Berlusconi come il cacio sui maccheroni. Essa dà una mazzata pesante al ruolo del presidente della Repubblica e pone in primo piano la funzione del presidente del Consiglio, cui viene attribuita la «esclusiva responsabilità» della proposta di scioglimento delle Camere.
Dunque impallidiscono miseramente il ruolo e i poteri del capo dello Stato, e avanza clamorosamente lo spazio di decisione del capo del governo, o premier (secondo lo si voglia chiamare), che,- nel corso del confronto parlamentare,- viene a disporre della spada affilata per mettere fine alla legislatura: in ogni modo per tenere continuamente l’assemblea parlamentare sotto il ricatto del congedo, del ritorno a casa. Sì, davvero: «premierato forte», e concentrazione nelle mani del premier di un corposo e costante potere di ricatto nei riguardi di un’assemblea parlamentare che ardisca mettere in campo una ostilità nei riguardi della volontà e dell’azione del presidente del Consiglio.
È giusto, è sbagliato? È richiesto dai tempi o è consono e necessario alla figura — diciamo — di un Silvio Berlusconi? È il più che gli manca per dare il meglio di sé e che ora il Senato gli prepara su un piatto d’argento?
Prima ancora di giungere a decisioni e letture di questo livello, io resto basito per il singolare silenzio che si è stabilito di fronte all’evento, e alla protervia che esso esprime.
Attenti. Non siamo di fronte a un qualche semplice aggiustamento o semplice valorizzazione del potere esecutivo in questo paese. Questo «premierato forte» è la cancellazione proterva di una lettura del potere politico e dell’ordinamento pubblico, maturata attraverso una storia sanguinosa, e un patimento di popolo, che ha vissuto repressioni selvagge e persino il rischio di una dittatura di marca nazista e di una discriminazione razziale mai conosciuta nel globo.
Ho conosciuto il libero Parlamento italiano appena uscii salvo dai rischi e dai lutti della seconda guerra mondiale. Quando vedemmo e salutammo la libertà che tornava (e si dilatava) — in questa fascia d’Europa immersa nel Mediterraneo — pur nelle differenze aspre di convinzioni e di culture, sempre — o quasi — tenemmo ferma l’ambizione e la fiducia in un regime assembleare, e in un’articolazione dei massimi poteri che rispettava un pluralismo, e vedeva nelle aule parlamentari un luogo di potere, dove il confronto e la decisione si manifestassero — direi: quotidianamente — alla luce del sole. E in quel Parlamento repubblicano — l’ho vissuto personalmente — anche nei momenti più aspri di rottura e di conflitto, l’assemblea agì come luogo di confronto articolato e persino complicato: per tenere fermi il riconoscimento e la legittimazione delle differenze, e tener vivo un pluralismo che diffidava sempre della concentrazione onnivora.
Furono troppi i partiti? O troppo sofisticate le differenze sindacali? O concedemmo troppa alla pluralità, alla moltiplicazione delle soggettività sociali, alla presenza di gruppi minori? Ci furono troppi stemmi in quelle aule e vessilli troppo diversi nelle piazze italiane?
A guardar bene però nemmeno quest’ordine di interrogativi coglie tutto il senso, la portata della mutazione dell’articolo 88. Attenti, non è solo l’in più di potere (e quale potere!) che la maggioranza berlusconiana ha dato al Primo ministro. È anche il cambiamento, lo sbiadimento di volto del capo dello Stato, di cui vengono mozzate essenziali potestà di intervento e di decisione. Insomma è un mutamento che cambia la trama generale dell’ordinamento repubblicano. Si potrebbe dire che viene frantumato il «mosaico» in cui la Carta costituzionale articola la strutturazione della decisione politica. Vive e avanza il «premier» forte. E a me — scusate lo scherzo — ricorda le immagini che vedo in televisione, quando da Vespa va questo nostro presidente: e in quello schermo c’è sempre solo e soltanto lui e quell’ossequioso funzionario della Rai.
E questo strapotere del «premier» è solo un volto dell’operazione. L’altro riguarda lo sbiadimento del dibattito assembleare: cioè l’idea, l’immagine che al paese vengono dati della costruzione della decisione politica.
È probabile — perché non confessarlo? — che il fastidio che si prova dinanzi a questa connotazione apologetica del premier discenda in chi scrive dall’assemblearismo che segnò — alla fine della guerra, ma già nel cuore stesso della lotta antifascista — tutta una generazione.
Sì. Noi credemmo molto nell’assemblea parlamentare che risuscitava dalla cancellazione operata dal fascismo, e nel confronto tra le posizioni che in essa doveva svilupparsi e vigoreggiare: e non solo nelle piazze e nel paese, ma nei luoghi specifici dove avveniva la formulazione — starei per dire: la costruzione — della decisione politica.
Il «premierato forte» sembra invece rifuggire sprezzantemente dalla «costruzione della decisione» che si compie nel confronto pubblico: prima di tutto nell’assemblea parlamentare.
Forse la mia generazione– nei suoi diversi colori — è ancora troppo segnata dalla memoria amara del modo duramente violento con cui il Parlamento italiano– ma anche l’articolazione dei poteri — fu selvaggiamente schiacciato dalla dittatura fascista.
Ricordate? Ci ribellammo persino con un moto di popolo a quella riforma elettorale — era il 1953, in piena fioritura democristiana — abbastanza blanda in realtà, che definimmo con il termine bruciante di «legge truffa».
Di fatto quel parlamentarismo in campo in Italia allora era legato a una lettura pluralistica della esperienza politica, che tendeva a dilatare, a dare sviluppo alla costruzione della decisione generale. E lavorammo intensamente a realizzare un nesso tra parlamentari e semplici cittadini: fra aula di Montecitorio e paese. Nel vivere permanente di questo nesso stava per noi il radicamento della politica tra la gente (e sapevamo bene che ciò poteva alimentare anche il ceppo del clientelismo e un rigonfiamento esasperato delle «correnti» politiche).
E tuttavia quella complessità, quel vigoreggiare dell’assemblearismo non dava sangue solo a «macchine politiche» e al partitismo. Esso si rifletteva anche nella vita delle città, nello sviluppo delle organizzazioni sociali: insomma nella dilatazione organizzata dell’esperire politico.
Che sarebbe stata la vita civile di tanti comuni italiani — grandi o piccoli che fossero — senza questa tensione politica e partecipazione diffusa, che rifiutava la strada del «verticismo» politico?
E infine. In questa esaltazione attuale del «premierato forte» emerge anche una contraddizione parecchio singolare fra il localismo leghista e l’idoleggiamento del possente premier alla Berlusconi. Si ha quasi l’impressione malinconica di una spartizione fra capi della maggioranza attuale: insomma di una confusa operazione di compravendita, in cui il localismo rozzo e avido si congiunge, si mescola con l’enfasi del «premierato forte», salvatore della Patria.
Si può tacere di fronte a un tale intrigo (o pasticcio) istituzionale che sa così ruvidamente di spartizione?
E chi serba memoria di un amarissimo passato italiano, non dovrebbe drizzare bene le orecchie, nel veder tornare gli uomini «forti», che inzeppano, nella loro già così gonfia saccoccia, anche il vivere o il morire — un bel mattino — dei Parlamenti?
È un allarme esagerato il mio? O addirittura i Parlamenti ormai sono solo camere da retrobottega, stanze per il personale di servizio? Io non lo credo. Ai nuovi cantori del Premier pigliatutto l’onere della prova.
Fonte: il manifesto
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