di Rossella Latempa e Renata Puleo
Mentre assistiamo alle nefaste conseguenze dell’applicazione della legge 107/2015 sulla scuola, il dibattito si sposta sul virtuale, sulle tracce algoritmiche. Un insegnante – di ogni grado scolastico – dovrebbe essere, fra gli adulti, il più avvertito su quel che sta accadendo nel rapporto fra saperi e nuove tecnologie. La tecnologia, come denuncia il suo suffisso, contiene le più svariate ideologie e riflessioni critiche sulla ricerca, sull’uso della tecnica, qualsiasi essa sia, su ciò che si è sviluppato ed è in sviluppo.
La titolarità di tale corpo di discorsi, che indirizzano la ricerca e le forme d’uso sociale, dipende dai rapporti di forza fra poteri dominanti e gli effetti di adesione, resilienza, resistenza dei corpi sociali subalterni.
La titolarità di tale corpo di discorsi, che indirizzano la ricerca e le forme d’uso sociale, dipende dai rapporti di forza fra poteri dominanti e gli effetti di adesione, resilienza, resistenza dei corpi sociali subalterni.
Un insegnante informato e consapevole è un lavoratore attualmente preso fra le due ganasce di una morsa: la qualità del rapporto di lavoro (dunque gli effetti del comando dal vertice del sistema, centrale e locale) e la responsabilità che, svolgendo questa professione, ha verso i suoi studenti.
Il primo aspetto oggi ha le caratteristiche di una forte spinta al controllo, che entusiasma la burocrazia scolastica. Il secondo riguarda la fascinazione, l’orrore, la sopportazione, nelle loro diverse gradazioni, dell’utilizzo di strumenti e, soprattutto, di strategie didattiche derivate, ispirate, governate dalla tecnologia informatica.
Il manifesto La Buona Scuola, in materia di aggiornamento digitale, recita: “ […] il nostro è il secolo dell’alfabetizzazione digitale: la scuola ha il dovere di stimolare i ragazzi a capire il digitale oltre la superficie. A non limitarsi ad essere consumatori del digitale […]”[1]
Ma, dato che le risorse economiche e del capitale umano sono ancora scarse per “le palestre di innovazione […] stampanti 3D, frese laser, componenti robotici” (p. 112), forse occorrerà aspettare gli effetti del lancio della campagna-punti dei supermercati e del crowdfunding (micro-finanziamento volontario e diffuso). Per le esigenze della didattica quotidiana, i genitori dovranno autorizzare i figli a portare a scuola il loro dispositivi che, per fare una figura meno miserabile, si chiama campagna “BYOD (Bring Your Own Device)” (p. 76).
Lo stile della prosa può portarci a far dell’ironia sul contenuto (la forma qui è più che mai il contenuto!). In realtà, c’è un pensiero magico che aleggia. I cittadini del secolo digitale non sono immuni dal suo fascino, gli insegnanti in primis.
Su Internazionale (7/13-ottobre 2016), la cui copertina titola “Quando il capo è un algoritmo”, vengono riportati un articolo del Financial Times e un commento su un’inchiesta svolta dal The Guardian. Il nucleo di senso di entrambi è il cambiamento in atto nel modo del lavoro, mutazione indotta, forzata, dall’introduzione delle tecnologie informatiche. Riferendo di un clamoroso - si potrebbe definire inattuale date le odierne condizioni delle organizzazioni sindacali! - sciopero dei lavoratori UberEats, a Londra, la giornalista scrive: “ E’ uno strano scontro: i lavoratori non hanno un vero luogo di lavoro e scioperano contro un’azienda che non li assume. Non sono gestiti da persone, ma da un algoritmo che comunica con loro attraverso lo smart-phone”.
Il motivo della protesta è che l’app (applicazione che gestisce l’incarico) viene continuamente aggiornata abbassando, insieme ai tempi di risposta e di esecuzione della consegna, anche il “contributo” (mai dire salario: è inattuale!) al lavoratore. Insomma, come prevedevano già qualche anno fa gli economisti non venduti alle versioni europee del Jobs Act, i profitti si fanno sempre e ancora sul costo del lavoro e – grazie alle applicazioni – con il cosiddetto “comunismo del capitale”[1]. Il comune del capitalismo Gig[2] è la condivisione di un messaggio e la presunta autogestione del lavoro: se vuoi rispondi, se no, no. Ma se non rispondi verrai tagliato fuori, se rispondi con lentezza idem…Ci torneremo dopo, a proposito del significato attualizzato di alcuni discorsi organizzati su parole-guida: cooperazione, comunità, società, responsabilità.
C’è un altro aspetto sottolineato dal The Guardian, l’effetto di controllo sulla vita dei lavoratori, anche dopo che sono stati licenziati. Le tecniche di assunzione si basano su algoritmi alla base dei test di personalità ma, continua il commento, il controllo sulle variabili vantate da alcuni come la logica inequivocabile di una buona programmazione, è preparato da esseri umani che codificano pregiudizi, luoghi comuni sul carattere, stereotipi razziali, di genere, ecc. Chi ha perso il lavoro oppure è stato poco efficace/efficiente (rapido e economico), peggio conflittuale, polemico, politicizzato, difficilmente troverà un altro impiego.
La giornalista inglese ricorda ancora che Frederick W. Taylor, inventore della moderna divisione del lavoro in fabbrica, adottata nell’industria automobilistica da Ford, preconizzò la scomparsa di ogni possibilità di resistenza da parte del lavoro parcellizzato. Se Tiichi Ōno ci mise del suo inventando la piccola squadra fidelizzata di lavoratori, responsabile della propria isola, nessuno dei tre arrivò ad immaginare cosa sarebbe riuscita a realizzare la Gig Economy.
Circa un anno fa, a pochi mesi all’approvazione della legge 107 (La Buona Scuola) il MIUR ha presentato Il Piano Nazionale della Scuola Digitale (PNSD, DM 851/2015). Da allora, un crescendo di attività, bandi ed eventi si sono susseguiti freneticamente (hackathon di ogni tipo, code weeks, MOOC di formazione ed approfondimento, contest scolastici, schoolkit, atelier creativi, cablaggi LAN/WLAN, biblioteche digitali) fino all’ultimo, tuttora in corso, che risponde alla “ azione15” del PNSD, datato 23 Settembre. Si tratta del bando per la costruzione di curricoli digitali scolastici innovativi, per cui il MIUR ha stanziato ben 4,3 milioni di euro (http://www.istruzione.it/scuola_digitale/curricoli_digitali.shtml).
La selezione è pubblica, le scuole, anche le paritarie, possono aderirvi esclusivamente in rete. Le aree tematiche sono molteplici: diritti di internet, educazione ai media, STEM, big data e open data, coding, arte e cultura digitale, economia ed imprenditorialità digitale. Tempo, circa 1 mese.
Tralasciamo i dettagli sulla totale assenza di trasparenza delle modalità di selezione delle centinaia di migliaia di proposte, della scelta delle commissioni giudicatrici, delle modalità di monitoraggio delle azioni. Tralasciamo anche la questione dei tempi necessari, del senso di costruire curricoli scolastici innovativi in maniera decentrata, dei quali solo 25, ripetiamo, 25, verranno selezionati, nel più probabile dei casi, senza alcuna condivisione, riflessione o coinvolgimento delle comunità scolastiche. Un curricolo è qualcosa che attiene alla scuola intesa come Sistema di Istruzione e Formazione, non è faccenda da demandare in una manciata di giorni alle scuole in piena attività e con tutti gli annessi e connessi che questo primo anno di riforma scolastica “a regime” comporta (assunzioni, valutazione docenti e, ora, dirigenti, piani di miglioramento e quant’altro).
Soffermiamoci solo sui temi evidenziati. Sono ricorrenti, pervasivi, totalizzanti oramai nel contesto scolastico. Coding, big data, open data, imprenditorialità digitale e, aggiungiamo, pensiero computazionale.
A quanto sembra, negli USA, entro il 2022 ci saranno 2.600.000 posti di lavoro nel settore dell’informazione; di questi, 750.000 per i programmatori.[4] Bisogna cominciare subito a preparare le future generazioni di programmatori. In Italia il MIUR, in collaborazione con il Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica (CINI), all’interno delle azioni previste da La Buona Scuola e dal relativo PNSD, ha aderito al programma americano Code.org ed ha dedicato un sito alla diffusione del coding.[5] Si può leggere che l’obiettivo è “di fornire alle scuole una serie di strumenti semplici, divertenti e facilmente accessibili per formare gli studenti ai concetti di base dell'informatica”. E, si continua,“gli strumenti disponibili sono di elevata qualità didattica e scientifica, per progetti utilizzabili in classe da parte di insegnanti di qualunque materia, per cui non è richiesta alcuna abilità particolare”.[6]
Nei passi citati è utile soffermarsi sul contesto ludico con cui si propone il pensiero computazionale, dai bambini della scuola primaria, fino agli adolescenti delle scuole secondarie. Il gioco (programmi come Scratch, Minecraft, ecc), il video-gioco, è l’ambiente naturale per i cosiddetti nativi digitali.[7] Fornisce una gratificazione immediata, soddisfazione, è il terreno proprio delle nuove generazioni e qui si devono assestare gli insegnanti.[8] Di tutte le discipline, come si legge nel testo citato.
Al bando le polverose lezioni frontali, l’insegnante veste i panni del coach, del mentor, del trainer, un consulente, un maieuta (non certo nell’accezione di Danilo Dolci), in grado di creare occasioni di crescita personale e di apprendimento reale, contestualizzato, autentico. Progetta video, lezioni interattive, struttura classi virtuali. L’insegnante innovativo, quindi, coniuga padronanza tecnica e “afflato umanistico”, superando la dicotomia moderna tra “scientifico” e “umanistico” verso quello che già nelle Indicazioni nazionali del 2012 il MIUR definiva “nuovo umanesimo”, della “la scuola di tutti e di ciascuno”. Davvero arduo qui, non sentire gli echi dell’omnes et singulatimfoucoultiano.
Ma, visto che non c’è nessuna connessione diretta tra gli ambienti educativi più diffusi nei piani ministerialie gli ambienti di programmazione professionali e, considerata l’evoluzione temporale di concetti, modelli, strumenti, pensare di insegnare oggi quello che sarà utile tra dieci anni dovrebbe sembrare un’operazione davvero troppo ambiziosa.
Gli adolescenti, già costantemente immersi nei video-giochi, possono cimentarsi nelle basi della programmazione fin dalla scuola primaria, ad esempio col diffusissimo Scratch. Come chiaramente spiegano Steve Penge e Massimo Ghisalberti[9] nelle loro riflessioni, Scratch, nato nel 2003 al MIT, ricco di circa 16 milioni di progetti[10], è uno strumento molto semplice, accattivante, progettato per i bambini, con cui non è necessario scrivere il codice. E’ un linguaggio di programmazione visuale con cui l’utilizzatore trascina oggetti grafici, li dispone in un certo ordine per ottenere il risultato. La relativa semplicità ne fa uno strumento che chiunque può utilizzare illudendosi di poter imparare o, ancor peggio, insegnare il pensiero computazionale. Come tanti linguaggi visuali, è imperativo e come tale contribuisce a formare una mente imperativa. Stimola al copia e incolla, alla visualizzazione continua di tutorials, al conseguente learning by example e al light learning.
Jeannette M. Wing, professore di Computer Science, in un citatissimo articolo sottolinea che il pensiero computazionale non è mera programmazione, ma un modo di affrontare una sfida.[11] Per poterlo sperimentare, ma ancor prima insegnare, sono necessarie conoscenze, attitudini, capacità. Qual è il senso, quale la reale opportunità? Insegnare non è proporre. Intere generazioni di studenti non possono diventare oggetto di sperimentazioni metodologica senza un reale pensiero pedagogico di base.
NOTE
[1]“[…]perché programmare non serve solo agli informatici. Serve a tutti per tornare a crescere, aiutando i nostri giovani a trovare lavoro e a crearlo per sé e per gli altri. Pensare in termini computazionali significa applicare la logica per capire, controllare, sviluppare contenuti e metodi […] risolvere problemi e cogliere le opportunità […] ” (p.95) “[un’attenzione particolare […] merita la formazione dei docenti al digitale. L’attuazione di una didattica integrata, moderna e per competenze si basa sulla necessità di offrire ai docenti gli strumenti necessari per sostenerli nelle loro attività progettuali […]” (p.47) “La tecnologia non deve spaventare. Deve essere leggera e flessibile […] catalizzare l’attenzione, ma deve essere abilitante, diffusa, personale, discreta […]” (p.74 ). L.107
[2] C. Marazzi Il comunismo del capitale ombre corte, Verona, 2010.
[3]La definizione di Gig Economy più diffusa è:organizzazione del lavoro che prevede lavoratori indipendenti a prestazioni non continuative; Gig, viene da gigabyte, unità di misura informatica.
[4] S. Penge http://www.bls.gov/news.release/pdf/ecopro.pdf
[6]Tra i sostenitori di Code.org troviamo: Facebook, Google, Microsoft, Jeff Bezos (Amazon), CISCO, Samsung. L’iniziativa numericamente sembra di grande successo. Sul sito si legge che in circa due anni sono stati raggiunti più di un milione di studenti.
[7]Roberto Casati, direttore di ricerca scientifica a Parigi, afferma che la locuzione è senza senso perché istituisce un’impropria analogia fra queste pratiche e le modalità di apprendimento di una Lingua Materna . R.Casati Contro il colonialismo digitale: istruzioni per continuare a leggere 2013, Laterza, Bari-Roma
[8]http://ospitiweb.indire.it/adi/GamiSalonicco2015/GamiSal_frame.htm, atti del recente convegno sulla Gamification nell’attività didattica.
[9]M.Ghisalberti http://minimalprocedure.pragmas.org/writings/Coding/coding.html ; S. Penge cit
Si avvale di software proprietari e come tali, soggetti a strategie commerciali.
[10] Si avvale di software proprietari e come tali, soggetti a strategie commerciali.
[11]J.M. Wing Computational thinking Comunications of ACM, 2006
Fonte: La Città futura
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