di Elisabetta Canitano
Il cuore del bambino batte ancora. In tutta Italia nei reparti dei punti nascita religiosi, e dei punti nascita a schiacciante maggioranza religiosa, si usa questa frase per mettere a rischio le donne. Ancora. Ancora vuol dire che la gravidanza è ormai irrimediabilmente compromessa, ma il cuore del feto continua a battere. Per le donne fra la 16esima e la 22esima settimana, con feti che secondo i protocolli internazionali, non vanno rianimati in quanto incompatibili con la sopravvivenza, questa frase rischia di diventare una condanna a morte tutti i giorni.
La maggior parte di queste donne hanno il sacco rotto (non riusciamo a sapere se era anche il caso di Valentina alla 19esima settimana) e la grande parete dell’utero, carne viva, è dunque a contatto con l’esterno, a rischio di grandissima infezione, la setticemia, modernamente chiamata sepsi. Certo, la sepsi non sempre arriva, prima o poi il battito cessa, o arrivano le contrazioni, in qualche modo il corpo della donna riesce a liberarsi del suo contenuto, e non succede niente. Ma lasciarle lì, dicendo «non possiamo intervenire, c’è il battito», per ogni ora aumenta il loro rischio di avere una sepsi mortale.
Cosa fare allora? Dove ci sono i medici che applicano la legge 194/78 si spiega alle donne che quel loro desiderato bambino non può più nascere e rischia di ucciderle, proponendo un aborto terapeutico.
In alcuni Ospedali religiosi si chiama un Ospedale laico e solidale e con un sotterfugio (lei firmi, esca sotto la sua responsabilità, lì la aiuteranno) e si fa compiere lì quel gesto di solidarietà indispensabile per proteggere la vita della donna.
In altri si procede senza tanta burocrazia, dicendo alla donna «è la cosa migliore, non c’è più speranza», così come si fa un cesareo urgente a qualsiasi settimana per una donna che ha una crisi eclamptica (le convulsioni della tossicosi gravidica).
E poi qualcuno spinge l’asticella più in alto. C’è la febbre intermittente della madre, segno minaccioso di sepsi, ma non importa (la mattina l’infermiere ha chiamato il medico raccontandoglielo? Chi ha deciso per dare la Tachipirina, l’infermiere da solo?) C’è la temperatura a 34 gradi, la pressione a 50/70, ma non importa.
A Valentina è stato fatto l’esame che dice che l’infezione sta camminando, di cui il primario Scollo va tanto orgoglioso, ritrovato della scienza moderna, ma non importa. Ci sono atroci dolori, urla, freddo, tanto da non voler uscire dal letto per andare in blocco parto, c’è la madre che la schiaffeggia per farla rinvenire, quando già tre volte era svenuta durante la mattinata.
Nessuno di questi segni, pur terrificanti nella loro chiarezza dell’inizio della sepsi dalla mattina, entra nella percezione del medico obiettore.
Chiuso nella sua frase «C’è ancora il battito» diventa praticamente un automa, dice cose sconnesse come «c’è una colica renale», «sono i dolori del parto», pur di negare a se stesso che la sta mettendo a rischio di vita, cosa che lo obbligherebbe ad aiutarla. Pur di non sapere che le mettono sempre a rischio.
Potrebbe chiamare il medico che effettua interruzioni di gravidanza in quell’Ospedale come consulente e farla aiutare da lui, ma dovrebbe riconoscere il male che le sta facendo, il rischio che infliggono alle donne tutti i giorni, in nome di un mantra privo di qualsiasi senso clinico.
Così le ore trascorrono distruggendo la vita di Valentina. Nella sepsi anche venti minuti possono fare la differenza, c’è da chiamare l’anestesista rianimatore subito, fare subito la terapia salvavita, altrimenti l’infezione comincerà a distruggere il fegato, i reni, il cervello. Valentina questi terribili dolori provocati dalla distruzione dei suoi organi li sente, li grida a chi non ha orecchie per sentire, non ha cuore per compatirla.
«Anche se un solo cuore del feto batte ancora io non posso fare nulla». E intanto Valentina sta morendo. È dalla mattina che sta morendo.
Chiede alla fine alla madre di essere sedata, sente quello che sta succedendo, chiede almeno di non soffrire più. Le viene negato tutto, anche la terapia del dolore.
Dalla mattina alle 9, momento in cui è salita la febbre, espelle il primo feto alle 23, dopo che il suo corpo è stato letteralmente mangiato dalla sepsi. Dopo l’espulsione del secondo, finalmente morto anch’esso, non le resta che morire. E a noi non resta che il dolore, la rabbia e la promessa che non succederà ad altre donne.
Fonte: Il manifesto
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