di Marina Lalatta Costerbosa
Si muore di parto e in gravidanza, capita ancora oggi. Ma qualcosa non torna nella tragedia di Valentina, che muore al Cannizzaro di Catania in attesa da cinque mesi dei suoi due gemellini. Alla Procura spetta il compito di ricostruire che cosa sia successo: se vi siano responsabilità, omissioni, errori. Resta, sconfinato, il dolore per chi li amava. E l’inquietudine, mista all’angoscia. Per come sono stati riportati nell’immediatezza della disgrazia, questi fatti sono stati anche l’occasione per riconsiderare la condizione, in Italia, della donna in gravidanza e l’immagine che se ne ha, perlopiù, nella morale diffusa, quando si presentano problemi per il concepimento, durante la gestazione e nell’accettazione stessa della maternità.
Ci si è soffermati sul controverso art. 9 della 194 (quello sull’obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella pratica abortiva). Spesso si è sostenuto che tale diritto non andrebbe riconosciuto, poiché nella prassi il suo esercizio si traduce nella negazione della tutela della donna che si risolva per l’interruzione. Difatti è così, ed è uno scandalo. È uno scandalo che l’adeguata presenza di medici non obiettori in servizio o addirittura assunti nelle strutture pubbliche non sia oggetto di tassativo controllo, pregiudiziale all’operatività dell’istituzione sanitaria stessa. Ed è uno scandalo che si debbano intraprendere viaggi desolanti per raggiungere approdi in grado di consentire di abortire non in clandestinità.
Così, negare il diritto all’obiezione sarebbe una via diretta e probabilmente efficace: il male minore. Non dimentichiamo però che si tratterebbe sempre di un male per una democrazia. E comunque il diritto all’obiezione di coscienza degli operatori resterà granitico, non perché siamo una democrazia solida e integra ma, al contrario e paradossalmente, proprio per la ragione per cui si tollera che esso violi altri diritti fondamentali, persino il diritto alle cure essenziali.
Vi fosse davvero la volontà di fronteggiare il problema della proporzione tra medici disponibili a praticare interruzioni di gravidanza e medici indisponibili nelle singole strutture e nelle diverse regioni del paese; si volesse davvero tutelare maternità e scelta abortiva, come recita il titolo della legge, sarebbe semplice trovare un dispositivo giuridico per regolamentare il ricorso all’obiezione. Non nascondiamoci dietro un dito ideologico. Non strumentalizziamo libertà di coscienza e natalità. La verità di questa situazione irrigidita e statica è un’altra.
Il cammino è ancora lunghissimo per arrivare a comprendere che la gravidanza non è mai un conflitto tra donna ed embrione: un luogo di carne e sangue, sentimenti ed emozioni, in cui si contrappongono parti distinte. Una gravidanza è sempre il contrario: un terreno di incontro e scambio, di comunicazione viscerale e profondissima. Proprio per questo una gravidanza che sorge da violenza, da stupro, da ricatto, è lacerante, per l’intera esistenza di una donna.
Ma se è così; se davvero si ha a cuore la coscienza morale sia del medico obiettore sia di colei che porta in grembo un altro che è parte di sé; se si accetta che la gravidanza sia una condizione relazionale costitutiva, allora le donne debbono essere liberate dalle vili colpevolizzazioni che passano tra le maglie di un diritto che dovrebbe offrire aiuto e non obbligare a riceverlo.
Nessuna donna si diverte ad abortire, nessuna, credo, lo vuole in astratto. Si può però volerlo in concreto. Offrire un aiuto morale e materiale alle donne in difficoltà per ragioni esistenziali, economiche o sociali può consentire loro di portare a termine la gestazione e renderle comunque più sicure. Va rispettata la coscienza di ciascuno, altrimenti il rispetto diventa prevaricazione: privilegio dei forti sui deboli e dei medici sulle donne, le sole che vivono l’esperienza di una relazione con un altro che – per ricordare la perfetta definizione di Catharine MacKinnon – «è più di una parte del corpo, ma meno di una persona».
Il feto «”è” la donna in stato di gravidanza», ma in un senso ben preciso: è in lei ed è di lei più di ogni altra cosa. Ma – e questo non può essere ignorato – non è lei, giacché non è, di lei, tutto ciò che vi è.
Fonte: Il manifesto
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