di Gianluca Roselli
La parola chiave è “concitazione”. Perché all’interno della concitazione si può fare qualsiasi cosa, anche al di fuori della legge. Questo termine è stato spesso utilizzato dalla Procura di Torino per archiviare, senza mai arrivare a processo, decine di denunce, querele ed esposti da parte di cittadini e manifestanti della Val di Susa nei confronti delle forze dell’ordine. Il tema è noto: in Valsusa dovrà passare la linea ad Alta Velocità ferroviaria tra Torino e Lione. La popolazione è contraria, ma lo Stato ha deciso di andare avanti lo stesso, in accordo con la Regione e il comune di Torino.
Si è dunque militarizzato il cantiere e i lavori, iniziati a pieno regime nel 2011, tra un’interruzione e l’altra, proseguono a singhiozzo. Nel frattempo la Val di Susa negli ultimi anni è diventata terreno di scontro tra manifestanti e forze dell’ordine: all’inizio protagonisti erano solo semplici cittadini e amministratori locali, poi la vicenda ha attirato manifestanti anti sistema da tutta Italia e anche oltre. Insomma, la questione si è politicizzata, diventando campo di battaglia tra No Tav e Stato. Risultato: in questi anni ci sono state numerose iniziative e presìdi con scontri violenti tra manifestanti e forze dell’ordine. Solo che, mentre i procedimenti giudiziari nei confronti dei manifestanti procedono spediti (in quattro anni ci sono stati mille indagati e 200 condanne in primo grado), mai si è arrivati a processo per le violenze della polizia contro cittadini e manifestanti. E dire che di denunce per lesioni, anche gravissime, pestaggi, abusi, umiliazioni e saccheggio di beni ce ne sono state a decine, suffragate da prove come fotografie, video e referti medici. La procura di Torino, però, ha sempre archiviato utilizzando spesso il termine “concitazione”. Per esempio: “Sì, il tal poliziotto ha tirato la manganellata che ha rotto il setto nasale al tal manifestante, ma tutto è accaduto, appunto, durante la concitazione degli scontri, dove qualche colpo, anche per difendersi dagli assalti, può scappare”.
Si è dunque militarizzato il cantiere e i lavori, iniziati a pieno regime nel 2011, tra un’interruzione e l’altra, proseguono a singhiozzo. Nel frattempo la Val di Susa negli ultimi anni è diventata terreno di scontro tra manifestanti e forze dell’ordine: all’inizio protagonisti erano solo semplici cittadini e amministratori locali, poi la vicenda ha attirato manifestanti anti sistema da tutta Italia e anche oltre. Insomma, la questione si è politicizzata, diventando campo di battaglia tra No Tav e Stato. Risultato: in questi anni ci sono state numerose iniziative e presìdi con scontri violenti tra manifestanti e forze dell’ordine. Solo che, mentre i procedimenti giudiziari nei confronti dei manifestanti procedono spediti (in quattro anni ci sono stati mille indagati e 200 condanne in primo grado), mai si è arrivati a processo per le violenze della polizia contro cittadini e manifestanti. E dire che di denunce per lesioni, anche gravissime, pestaggi, abusi, umiliazioni e saccheggio di beni ce ne sono state a decine, suffragate da prove come fotografie, video e referti medici. La procura di Torino, però, ha sempre archiviato utilizzando spesso il termine “concitazione”. Per esempio: “Sì, il tal poliziotto ha tirato la manganellata che ha rotto il setto nasale al tal manifestante, ma tutto è accaduto, appunto, durante la concitazione degli scontri, dove qualche colpo, anche per difendersi dagli assalti, può scappare”.
Il problema, però, è che molti di questi pestaggi non sono avvenuti durante gli scontri, ma in un secondo tempo, quando la situazione era più tranquilla, con i manifestanti a terra, oppure già in stato di fermo. Se le botte sono state date a freddo, non ci si può più nascondere dietro il termine “concitazione”, che invece piace così tanto ai magistrati torinesi.
Molto di questo materiale, tra cui video e registrazioni audio delle stesse forze dell’ordine, è stato raccolto in un documentario dal titolo Archiviato. L’obbligatorietà dell’azione penale in Valsusa, con la regia di Carlo Amplino e la voce narrante di Elio Germano. Nel film, quaranta minuti di documenti di pestaggi in stile G8 di Genova, si chiede perché la procura di Torino non proceda di fronte alle denunce dei cittadini, ma archivi tutto. Quando invece il nostro sistema giudiziario prevede l’obbligatorietà dell’azione penale, sancita dall’articolo 12 della Costituzione. “Poi si può anche arrivare ad assolvere, ma almeno che si facciano i processi, che servono proprio a stabilire come si sono svolti i fatti”, osserva il senatore Pd Luigi Manconi, che la settimana scorsa ha organizzato la presentazione del film in una sala del Senato. Insomma, due pesi e due misure. Tesi suffragata dal fatto che l’ex procuratore capo di Torino, Gian Carlo Caselli, nel 2008 aveva creato una squadra di magistrati ad hoc per indagare sulle violenze dei manifestanti in Valsusa, una sorta di minipool poi confermato dal suo successore, Armando Spataro, nel 2013. Il documentario, infatti, punta il dito contro la procura di Torino definendola “un porto delle nebbie”, dove le denunce dei cittadini vengono automaticamente archiviate.
“Il livello di democrazia di un Paese si misura anche dalla capacità del sistema di tutelare i suoi cittadini e nel dovere dei suoi rappresentanti di agire all’interno della legge”, osserva Livio Pepino, ex magistrato esperto di mafia e criminalità organizzata. “Quello che traspare da questa vicenda è che vi sia una sorta di ‘ragion di Stato’ cui la Procura torinese si adegua secondo cui l’Alta velocità deve andare avanti e le proteste debbano essere sedate, anche con la forza”, spiega Carlo Bonini, giornalista di Repubblica, intervenuto alla proiezione del documentario. “Questo poi non vuol dire nascondere le violenze dei manifestanti contro le forze dell’ordine. A un certo punto la valle è diventato il playground dei movimenti di tutta Europa contro la Tav. Il limite è stato superato da entrambe le parti”, aggiunge Bonini per dovere di cronaca. E’ però la procura di Torino a usare due pesi e due misure. “Sembra quasi che lo Stato abbia dato alle forze dell’ordine il compito di fare il lavoro sporco, garantendo una sorta di impunità sulle violenze perpetuate sui manifestanti”, sostiene l’avvocato Claudio Novaro, uno dei legali che ha seguito le denunce dei cittadini.
Due le proposte avanzate della politica per rendere più difficile il ripetersi di simili episodi: il numero identificativo sul casco degli agenti e l’approvazione del reato di tortura, che da 16 mesi giace nei cassetti delle commissioni parlamentari. “Dato che la responsabilità penale è personale, è complicato indagare i dirigenti delle forze dell’ordine per le violenze commesse dai singoli agenti”, continua Novaro.
Nel frattempo da mesi in Valsusa non ci sono più scontri. Per due motivi: da una parte le sentenze di condanna nei confronti dei manifestanti iniziano a farsi sentire; dall’altra i lavori procedono a rilento all’interno di un cantiere superblindato. “Ma questo non significa che il movimento No Tav è morto: non ci sono più state manifestazioni, ma la protesta, specie quella della popolazione valsusina, è ancora tutta lì”, racconta il senatore grillino Marco Scibona, che viene proprio da quella terra. “Purtroppo in Italia è difficile che lo Stato processi se stesso, ma qui siamo a una difesa a oltranza, quasi una sudditanza psicologica, della magistratura nei confronti delle forze dell’ordine e a scapito dei cittadini”, conclude Manconi. Secondo le associazioni che hanno prodotto e realizzato il documentario, a Torino non è uguale per tutti.
Fonte: glistatigenerali.com
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