di Massimo Modonesi
Le forze politiche di destra latinoamericane sono state molto attive e negli ultimi tempi hanno ottenuto significative vittorie. Ultima in ordine di apparizione: la svolta del processo di pace in Colombia. In meno d’un paio d’anni la Destra ha vinto le elezioni in Venezuela e in Argentina; ha bloccato la possibilità di un’altra rielezione di Evo Morales in Bolivia e apparentemente, con altri metodi, anche di Correa in Ecuador; ha destituito Dilma e ha messo alle corde Lula in Brasile; le forze di destra si sono disputate tra loro il secondo turno delle elezioni presidenziali in Perù.
Presumibilmente minacciano di vincere il referendum destituente in Venezuela e la destra si presenta come favorita nelle elezioni in Messico del 2018, salvo considerare tutti i cambi e le eventualità che possano accadere nell’anno pre-elezioni, tradizionalmente incandescente. E la lista potrebbe continuare, includendo segnalare le poche eccezioni, che comunque non sono del tutto estranee alla tendenza generale, come, ad esempio, il caso Uruguay e Nicaragua, dove la tendenza ad andare a destra sembra prodursi all’interno delle forze progressiste locali più che per la forza delle opposizioni apertamente neoliberali.
Presumibilmente minacciano di vincere il referendum destituente in Venezuela e la destra si presenta come favorita nelle elezioni in Messico del 2018, salvo considerare tutti i cambi e le eventualità che possano accadere nell’anno pre-elezioni, tradizionalmente incandescente. E la lista potrebbe continuare, includendo segnalare le poche eccezioni, che comunque non sono del tutto estranee alla tendenza generale, come, ad esempio, il caso Uruguay e Nicaragua, dove la tendenza ad andare a destra sembra prodursi all’interno delle forze progressiste locali più che per la forza delle opposizioni apertamente neoliberali.
Se in alcuni di questi Paesi come la Colombia, il Perù e il Messico, la tendenza ad andare a destra si produce all’interno di scenari politici che sempre sono stati neoliberali e conservatori, è più allarmante che la tendenza si manifesti anche, e in modo drastico, in paesi dove per più di dieci anni hanno governato forze progressiste.
Il ritorno della destra, in questi casi, riporta a più fattori la cui concatenazione è difficile da spiegare. Per mettere in evidenza, in questa contingenza, il peso politico che ottengono alcuni aspetti strutturali, mi limiterò a segnalare, in modo telegrafico, due di questi fattori, il primo d’ordine economico, e il secondo d’ordine politico.
Rispetto al piano economico, è stato segnalato come il cambio del clima nel mercato capitalista mondiale abbia affondato il così detto consenso delle “commodities”, limitando le entrate, e di consequenza l’iniziativa produttiva, e la capacità redistributrice di questi governi che si basava sull’ingrandire la torta e le fette per ognuno dei commensali. La realtà presente è marcata dall’affermazione ineluttabile della logica dei cicli e delle crisi del capitalismo, qualcosa che magari non fu presa in considerazione per poca lungimiranza o considerando che eccedeva i margini di intervento e di azione dei governi in turno.
Però, anche se si potesse giustificare così, questa valutazione non si rese esplicita nel momento di disegnare e difendere la prospettiva di un nuovo sviluppo che questi assunsero e che, come i loro antecedenti storici degli anni ‘40 e ‘50, finì esplodendo con la persistenza alla dipendenza.
D’altro canto, nel terreno politico, è da anni che insisto, insieme ad altri analisti, sui vizi inerenti alla scommessa dei diversi progressismi latinoamericani per una forma di statalizzazione e di regime di governo, in piena continuità con la logica dell’elettoralismo e del “caudillismo”, promuovendo (in alcuni casi più che in altri) la smobilitazione o la risubordinazione degli attori e dei movimenti sociali che erano stati protagonisti del ciclo delle lotte antineoliberali degli anni 90, per garantire la stabilità del processo-progetto autoproclamato postneoliberale e sostenere determinati gruppi dirigenti o organizzazioni politiche. I recenti risultati dimostrano che si era sopravvalutata la capacità di governo e di costruzione di una maggioranza elettorale non esente dall’essere gonfiata artificialmente attraverso pratiche di assistenzialismo e clientelismo; non si prese in considerazione la possibilità di scommettere sulla mobilizzazione e l’attivazione delle classi subalterne e si sottovalutò la capacità di reazione della destra locale.
Giustamente, in assenza di un contrappeso a sinistra, di vasti e combattivi movimenti popolari, la destra latinoamericana che in diversi Paesi ( Argentina, Brasile, Bolivia, Ecuador e in modo particolare Venezuela) a metà del 2000 era stata completamente sconfitta, finì per riprendersi. Questo avvenne sia per l’inevitabile indebolimento delle forze progressiste, proprio dell’esercizio del governare, sia per il fatto che i discorsi e le pratiche nazional-popolari non riuscirono ad essere sufficientemente incisive in campo sociale e i valori e le convinzioni non furono sostanzialmente modificati.
Il conservatorismo sociale seminato e raccolto nel ciclo d’instaurazione del neoliberalismo tra gli anni 80 e 90 si mantenne grazie alla sua intrinseca solidità, e perchè non furono direttamente messi in discussione alcuni dei suoi principi, ma, più d’una volta, strumentalmente utilizzati come, ad esempio, nel caso del consumismo che fu, per più di una decade, una delle chiavi del buon risultato politico-elettorale di realizzazione, da classe media, del progetto di nuovo-sviluppo.
Cosicchè dietro processi che sembrarono aver successo in termini di costruzione di una egemonia a breve scadenza, sotto forma di voti, alleanze, consenso interclassista, emerse fatalmente, nel campo della disputa politico-culturale, la questione egemonica di fondo, in cui la sedimentazione ideologica a mezzo-lungo termine continuò ad avere un chiaro colore neoliberale e, in uno strato ancora più profondo, di storico conservatorismo.
In sintesi, al di la delle variabili responsabilità politiche di uno o di un’altro, la destra trovò le condizioni per la sua rinascita nelle profondità strutturali, economiche e culturali, delle società capitaliste latinoamericane. Per questo non sarà facile combatterla e, nello stesso tempo, la sua emergenza, per lamentabile e dolorosa che sia in termini di interesse immediato delle classi subalterne, obbliga ad un salutare esercizio di revisione delle tattiche e delle strategie, a riorganizzare le forze sociali e politiche e ripensare progetti e valori di riferimento.
Massimo Modonesi, nato a Roma nel 1971, risiede dal 1996 a Città del Messico, dove attualmente è professore ordinario presso l’Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM). È inoltre direttore di Memoria, la rivista del Centro di Studio sul Movimento Operaio e Socialista (Cemos). È studioso dei movimenti politici in America Latina e deglii approcci e dei concetti marxisti relativi all’agire politico, temi su cui ha scritto numerosi libri e saggi. In italiano segnaliamo il suo libro Subalternità, antagonismo, autonomia(Editori Riuniti 2015).
Fonte: Rifondazione.it
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