di Roberto Sciarelli
"L’Italia, con le sue minime colpe coloniali, ha poco da risarcire e tanto da insegnare ai Paesi che ora erigono barriere contro le vittime della violenza europea". Con queste parole si chiude un articolo pubblicato da pochi giorni su La Stampa, in cui Antonio Maria Costa ripercorre la lunga storia “del più grande crimine nella storia dell’umanità: un delitto perpetrato a Londra, Parigi e Bruxelles – e che ora continua con il concorso di Pechino”. L’autore si sta riferendo al colonialismo, e ne parla per attaccare la politica di chiusura delle frontiere attuata da quelle potenze europee che, dopo aver saccheggiato per secoli il continente africano, si rifiutano di accoglierne i migranti.
Ci sono alcune lacune nella ricostruzione del fenomeno coloniale – quella che salta all’occhio per prima è l’omissione delle lotte antimperialiste, sostituite da una generica “liberazione”, avvenuta apparentemente senza contrasti – ma ad essere intollerabile è la pretesa che il colonialismo italiano sia stato meno brutale, che l’Italia non abbia responsabilità nei confronti di chi oggi decide di migrare.
Ci sono alcune lacune nella ricostruzione del fenomeno coloniale – quella che salta all’occhio per prima è l’omissione delle lotte antimperialiste, sostituite da una generica “liberazione”, avvenuta apparentemente senza contrasti – ma ad essere intollerabile è la pretesa che il colonialismo italiano sia stato meno brutale, che l’Italia non abbia responsabilità nei confronti di chi oggi decide di migrare.
Tentativi di omissione e minimizzazione di questo tipo non sono una novità per la stampa italiana. Già a febbraio di quest’anno avevamo letto, sul Corriere della sera, un articolo di Angelo Panebianco in cui si parlava della “nostra esperienza” e della “continuità dei nostri rapporti con la Libia”, dimenticando però che di quella esperienza e di questi rapporti fanno parte il massacro della popolazione della Cirenaica avvenuta negli anni Trenta, i soldi e le tecnologie necessari a intercettare e rinchiudere i migranti subsahariani, le migliaia di bombe sganciate sul paese nel 2011, il mantenimento di relazioni di forza funzionali ad assicurare, ancora, i flussi di petrolio e il controllo delle frontiere[1].
Il carattere coloniale della politica estera italiana è infatti persistente, tutt’altro che confinato in un passato fatto di armi chimiche illegali usate contro gli etiopi, di schiavitù sessuale imposta alle minorenni abissine, di piantagioni di banane in Somalia. Le pratiche coloniali nostrane sono attuali e diversificate, sanno esprimersi tanto con le bombe e il filo spinato quanto con l’uso di sofisticati strumenti finanziari, servendosi sia di accordi commerciali fra aziende di stato sia di reti criminali transnazionali. Si sono certamente evolute e, se non provocano più la morte tramite gas deturpanti (ma il commercio di armi convenzionali resta sempre un settore solido, per carità), sono comunque abbastanza intense da provocare dei veri disastri sociali e ambientali.
Un primo esempio è dato, non a caso, da un altro paese già vittima della nostra colonizzazione, la Somalia. Ufficialmente, i funzionari italiani hanno abbandonato il paese nel 1960, dopo 10 anni di amministrazione fiduciaria, quando l’ex colonia italiana e quella inglese si unirono nella Repubblica di Somalia. Questo non impedì a Craxi di intervenire nella politica somala sostenendo il dittatore Siad Barre (da poco passato al campo atlantista) con centinaia di miliardi di lire, e di venire accolto nel paese con fasti degni di un Vittorio Emanuele, durante la sua visita nel 1985. In tempi più recenti, mentre il paese era già in piena guerra civile, l’imprenditoria italiana non si è fatta scrupoli a trasformare le coste somale in una discarica avvelenata. Lo tsunami che colpì il paese nel 2004 (oltre a uccidere 298 persone e a obbligarne 50mila alla migrazione) portò alla luce alcuni barili di rifiuti tossici abbandonati nel corso degli anni ’90. Un rapporto di Greenpeace[2] documenta con precisione le rotte delle “navi tossiche” salpate da porti italiani a partire dalla fine degli anni ’80, verso altri paesi mediterranei o africani, approfittando dei buchi nella legislazione nazionale ed europea. Si calcola che in territorio somalo ci siano oggi 35 milioni di tonnellate di rifiuti provenienti dall’Italia[3], con tutte le conseguenze immaginabili in termini di contaminazione delle acque e del suolo e, quindi, per l’economia del paese e per la salute dei suoi abitanti.
Passando dalla costa orientale a quella occidentale del continente, l’Italia e le sue aziende continuano a distinguersi per la violenza degli impatti ambientali cui sottopongono i territori da cui estraggono risorse. Nel delta del fiume Niger, per esempio, area ricca di petrolio e, perciò, fra le più inquinate del pianeta, insieme a grandi imprese estrattive come la Chevron troviamo anche la multinazionale italiana ENI, con la sua sussidiaria, Nigerian Agip Oil Company (NAOC), che dispone di concessioni per oltre 5mila chilometri quadri[4], senza contare le attività di esplorazione. Fra la compiacenza delle autorità nazionali, la repressione degli attivisti locali e la totale impunità delle aziende, non si contano gli episodi di perdite di petrolio, sversamenti, incidenti, e combustioni di gas, seguiti dal rifiuto di compensare le comunità colpite, o anche solo di bloccare le fuoriuscite. La popolazione locale subisce di anno in anno danni enormi, vive sempre di più una grave situazione di insicurezza alimentare dovuto alla distruzione dell’agricoltura e non riceve nulla dei proventi del petrolio, spartiti fra governo centrale e multinazionali straniere.
Quando non inquina direttamente le terre e i raccolti, l’Italia prova prima ad accaparrarseli. L’accaparramento di terre, o land grabbing, è la pratica forse più simile a quelle tipiche del colonialismo classico: oggi supportata da un’infrastruttura legale e finanziaria modernissima, permette l’acquisizione di grandi porzioni di terreni agricoli da parte di élite locali e, spesso, multinazionali occidentali (private o pubbliche) che contrattano direttamente con i governi, portando all’espulsione di piccoli produttori e comunità indigene cui non vengono riconosciuti i loro diritti consuetudinari di accesso alla terra. Ebbene, multinazionali italiane sono attualmente in possesso di oltre 800mila ettari di terre africane[5], calcolando solo le acquisizioni registrate. Si tratta di un fenomeno difficile da mappare, a causa della scarsa trasparenza delle relazioni commerciali, e quindi è impossibile avere un dato completo. Poco meno di un decimo degli accaparramenti italiani noti, comunque, hanno avuto luogo in un’altra ex-colonia italiana, l’Etiopia.
Questi sono solo alcuni dei possibili esempi di come l’economia italiana estrae risorse da paesi africani, ne influenza la politica interna, approfitta di relazioni privilegiate con governi autoritari, deteriorando e impoverendo il tessuto sociale, l’economia e il l’ambiente dei territori che sfrutta. E tanto ci sarebbe da dire su come i governi e le aziende italiane intervengono in altre regioni del Sud globale, dall’Iraq, in cui fummo e continuiamo a essere invasori, all’America Latina, in cui l’italianissima ENEL continua a minacciare le popolazioni locali imponendo un modello di sviluppo insostenibile e obsoleto[6].
Non occorre oggi stabilire chi abbia più colpe, se Londra, Parigi o Roma. Le nostre (e i nostri) capitali sono legate da una comunanza di interessi che si chiama “eurocentrismo”, perché eurocentrico è il marchio del mercato mondiale, nato quando un italiano, a bordo di navi spagnole, mise piede per la prima volta su un’isola dei Caraibi. Fu la conquista e la sottomissione dell’Altro a creare, per prima, l’identità europea. Il nostro tempo ci chiede di riconoscere la continuità di questa storia e di combattere la colonialità del potere in ogni luogo e in qualunque sua forma, che si tratti di estrazione di risorse da paesi africani, di chiusura e militarizzazione dei confini o di segregazione razziale nelle periferie delle nostre metropoli.
NOTE
2, Greenpeace (2010), The toxic ships
3, Environmental Justice Atlas, Somalia toxic waste dumping
Fonte: dinamopress.it
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