di Giuseppe Vecchi
Non mi pento di nulla. Non lo feci quando ero in croce e vedevo inchiodare i miei compagni, avendo ancora negli occhi le immagini dei bambini e delle donne trucidate tra i prati. Perché dovrei farlo ora, se vedo che non furono invano la nostra morte e la nostra rivolta. La vita non è vivere, ma cercare Giustizia, morire, anche, per la Giustizia. Senza Giustizia tutto è preferibile, anche la morte. Sì, capisco…tutti quegli innocenti trucidati, la cui unica colpa fu quella di avermi seguito, di avere sognato con me la stessa libertà, di avere condiviso la stessa ansia di riscatto, preferendo un giorno da uomini liberi anziché una vita da schiavi.
In realtà i veri morti sono altri: quelli che li hanno condannati a morte. Oggi anch’essi stanno nella nera terra, con la differenza che il loro nome (ma chi si ricorda del loro nome, confusi in un generico e vergognoso insieme) è abominio, il disprezzo della loro disumanità corre di bocca in bocca.
In realtà i veri morti sono altri: quelli che li hanno condannati a morte. Oggi anch’essi stanno nella nera terra, con la differenza che il loro nome (ma chi si ricorda del loro nome, confusi in un generico e vergognoso insieme) è abominio, il disprezzo della loro disumanità corre di bocca in bocca.
Il mio mondo era diventato una gabbia. Non ero dissimile da un animale che si alleva per finire sul desco. Eppure, in apparenza, ero uguale a coloro che si divertivano nel vederci combattere nell’arena, che fremevano di un pazzo impeto all’idea del sangue versato. Non è una sola l’umanità… Era l’ebbrezza di una stolta emozione, un selvaggio e primitivo retaggio di belva. Un lontano antenato doveva aver lasciato nella mente una foga dissennata, la stessa che, nel vostro mondo, ancora dopo duemila anni, vi trasporta e vi fa partecipi allorché due uomini, anziché di spada, si combattono a pugni, la stessa che vi invade quando si immola un toro nell’arena, godendo della sua agonia.
No, non mi pento di nulla. Chi dovrebbe pentirsi sono invece quei vincitori e tutti gli altri che sono sempre restati a guardare tacendo, forse di vergogna. Loro è l’onta del nostro sangue versato.
Sì, è vero, anch’io feci parte di quell’esercito in cui avrei potuto raggiungere una falsa ed effimera gloria, carica di pentimento e di vergogna. Ben presto capii però che non era quello il mio posto, non tra chi si crede vicino agli Dei e ne assume i riti violenti e tragici, ma tra quelli che gli Dei avevano dimenticato. Avrei potuto restare, magari ricevere un giorno l’omaggio del popolo al ritorno da una spedizione vittoriosa, ma quell’omaggio sarebbe stato la mia ignominia. L’essere me stesso mi costò tutto, da ufficiale fedele all’imperatore divenni schiavo, schiavo nel corpo ma finalmente libero nell’anima.
Non so se esistano Dei, se essi dimorino in cielo, nella terra o nel mare: i potenti dicono di averli al loro fianco, di aver ricevuto da loro lo scettro del comando, mentre i sacerdoti benedicono le turpi azioni di guerra e di conquista. Ma gli Dei, se esistono, stanno solo a guardare, sono gli uomini gli unici artefici del loro destino, anche il destino degli Dei è opera loro.
Non provo risentimento né odio verso coloro che furono i nostri aguzzini. Né verso i pirati cilici che ci tradirono promettendoci navi che mai vedemmo. Preferisco invece ricordare i miei compagni, i pochi e brevi momenti della nostra gioia, il calore delle nostre fraterne condivisioni di vita.
Erano solo in cinquanta a seguirmi, all’inizio, poi quei cinquanta divennero migliaia e l’eco delle nostre gesta si sparse per tutto l’Impero. Ma non fu tanto l’eco delle nostre ripetute vittorie militari, certo: anche quelle contribuirono non poco a credere possibile il riscatto, ma fu invece l’eco delle nostre parole: libertà, gli uomini sono tutti uguali. Quelle parole le rapì il vento portandole fino in ogni sperduto angolo del mondo, e sono quelle parole che ancora oggi spaventano ancora i ricchi e i potenti.
Essi cercano di esorcizzarle, trasformandole in utopie o in soluzioni poste al di fuori della storia, di una storia disegnata a loro uso e consumo. Perché l’umanità non è una soltanto: sono due le umanità. Una ha sempre e soltanto conosciuto la sconfitta, l’altra la vittoria. Destino beffardo quello che ha sempre voluto la ragione soccombere sotto l’ingiustizia. Si narra di un tempo chiamato età dell’oro, in cui tutti gli uomini erano uguali, non regnavano l’invidia, né lo scellerato desiderio di avere che avrebbe rovinato il mondo, dividendolo entro confini che recintavano le terre di tutti, lunghi confini che misuravano gli agrimensori da cui si generò ogni ingiustizia e ogni male.
La smania di ricchezza non conosce limite ed è la causa della miseria degli ultimi. Ma anche gli ultimi possono respirare stagioni e il verde delle campagne, anche gli ultimi possono amarsi e generare figli. Non desiderano altro che un piccolo posto a sedere sulla Terra, dove poter avere una casa e raccogliere quanto basta per poter superare i giorni.
Finii crocefisso, come tanti prima di me e come tanti ancora dopo. Anche un Dio ebbe medesima sorte. Parlava come me, ma rifiutava la spada. Non mi pento di averla usata, gli eserciti a volte si sconfiggono con le idee, ma spesso esse non bastano. In quel momento la spada era la sola strada aperta per il nostro riscatto. Gli eserciti usano sempre la spada. Sono stati creati per averla in pugno ed usarla. Ed è per questo che sino a che vi sarà un solo esercito al mondo, i rapporti tra gli uomini si nutriranno ancora dei conflitti tra gli stessi, lontano il pacifico convivere dei padri, il sereno fluire delle stagioni sui deschi familiari.
Finii crocefisso, ma da quel giorno il vento porta sui confini del mondo il ricordo del mio martirio. Esso infonde coraggio e forza a chi non accetta l’ingiustizia; sventola come una bandiera nascosta dentro ai loro cuori, una bandiera che ha il colore azzurro dei miei occhi, profondo e triste come il cielo di Tracia.
Fonte: La Città Futura
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