di Sarantis Thanopulos
Come il suo stesso nome dice, la «Costituzione» non stabilisce le regole del vivere comune: costituisce il loro senso e la loro possibilità. Nel fare questo crea uno «spirito» per il sentire, pensare e agire dei cittadini in cui confluiscono le passioni e gli ideali che stanno alla base della sua origine. Lo «spirito» creato dalla Costituzione, un intendersi oltre la cultura comune del vivere e la comunicazione attraverso linguaggi condivisi, ha due fonti. La prima è la materia di cui essa è fatta: la stessa del senso di corresponsabilità dei cittadini che è espressione di sensibilità e di cura reciproca – oltre che nei confronti dei loro valori e beni comuni.
La seconda, corrisponde alla sua configurazione necessaria come garante dell’incontro delle loro differenze nelle relazioni di scambio.
La seconda, corrisponde alla sua configurazione necessaria come garante dell’incontro delle loro differenze nelle relazioni di scambio.
La Costituzione fonda la Polis non solo come società politica, ma anche come società civile. Ha un valore compiuto quando si configura come «patto» tra i cittadini. Questo patto non coincide con il testo costituzionale, anche se ne è indissociabile perché lo ispira e ne è ispirato. Non è scritto da nessuna parte e l’adesione ad esso non richiede una conoscenza esperta dell’ordinamento costituzionale. Pur essendo radicato nella condivisione di visioni culturali e politiche, è sopratutto un «clima», un «ambiente», una «memoria vivente», psichicamente (mentalmente, affettivamente, eroticamente) investiti.
Grazie al tacito «patto costituzionale» tra di loro, i cittadini si sentono non solo protetti dai soprusi e da sgradevoli imprevisti, ma anche liberi di seguire le loro inclinazioni e i loro desideri: di convergere nelle rotte più battute o divergere verso approdi più inconsueti; di poter sentirsi minoritari, senza correre rischi, in quello o in quell’altro dei loro idiomi e preferenze del vivere. La funzione psicologica della Costituzione può, per certi aspetti, essere paragonata a quella di una rete di strade in cui ognuno si sente libero di scegliere, di volta in volta, la propria destinazione e viaggiare verso luoghi conosciuti o sconosciuti (seguendo le norme di circolazione). Senza la preoccupazione di finire in un fossato o in un’interruzione, oppure di essere rapinati da banditi o bloccato da sorveglianti che abusano del loro potere di controllo.
La fiducia nell’ordinamento costituzionale è tanto più grande quanto più esso garantisce, emotivamente, l’esperienza del viaggio, della trasformazione. Siamo «cittadini» quando il nostro senso di sicurezza viene dalla possibilità di vivere destabilizzazioni che cambiano l’orientamento della nostra esperienza, godendone. Diventiamo «sudditi», invece, quando aspiriamo all’ordine permanente, alla riproduzione continua dell’esistente.
Modificando le leggi costituzionali si può alterare la loro dinamicità, irrigidendone l’equilibrio strutturale. Il problema è serio, quando le modifiche riflettono esigenze contingenti che, invece di sottomettersi al quadro che dovrebbe renderle comprensibili e gestibili, pretendono di manipolarlo. Perché la manipolazione non lo renda fragile bisogna pietrificarlo, almeno in alcune sue parti. Allorché questo si verifica, il patto costituzionale, fondante la Polis, si incrina. I cittadini se ne distraggono, lo dimenticano.
Presi dal senso di precarietà si aggrappano a forme di potere stabilizzanti che gestiscono le cose fermando la loro evoluzione. L’inseguimento della stabilità come valore a sé stante, che congela il presente, bloccando la sua apertura al futuro, fa vivere alla giornata. Prepara la via (nel tempo necessario perché l’incrinatura si allarghi) a uno sbocco autoritario.
Fonte: Il manifesto
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