di Marco Bertorello
Le difficoltà economiche-finanziarie dell’Italia di queste ultime settimane, per non dire mesi, sono riconducibili alla preoccupazione dei famigerati mercati sulla tenuta politica del paese? Certamente questi sono sempre in cerca di stabilità e di garanzie di continuità nell’azione di un governo che, come quelli che lo hanno preceduto, pratica la stretta osservanza della lettera della Bce spedita a Berlusconi nel 2011. Certamente alcuni hedge fund in questo periodo possono aver approfittato della fase ribassista. Ma ridurre ciò che sta avvenendo alla sola vicenda referendaria è sintomo di un certo localismo nel leggere i processi in atto.
Se proviamo a guardare il contesto allontanandoci un poco dall’Italia si può notare che è in corso un ritorno della geopolitica, ben rappresentato dalla Brexit e dall’elezione di Trump.
Se proviamo a guardare il contesto allontanandoci un poco dall’Italia si può notare che è in corso un ritorno della geopolitica, ben rappresentato dalla Brexit e dall’elezione di Trump.
I due fatti sono entrati in forte relazione quando il nuovo presidente degli Usa ha incontrato i leader britannici, lasciando intendere che potrebbe affermarsi un nuovo asse anglosassone tra le due sponde dell’Atlantico. Tale alleanza darebbe vita inevitabilmente a un’accelerazione delle logiche protezioniste e a un obiettivo indebolimento dell’Unione europea.
Le contraddizioni per questa prospettiva non sono poche, ma la strada, seppur tortuosa, è stata indicata.
Un altro macro-problema per l’Europa è costituito dal suo sistema creditizio. Il rimbalzo di reciproche accuse tra centro e periferia è disarmante. Bruxelles e Berlino accusano le banche italiane di avere troppi crediti deteriorati e Roma si difende evidenziando come le banche centro-europee abbiano in pancia una quantità preoccupante di derivati, una quantità persino superiore a quella posseduta dalle banche britanniche, le quali a suo tempo furono il detonatore della crisi con i loro titoli tossici. Tutto talmente vero che è un anno che l’intero comparto si va indebolendo.
Se passiamo al piano politico, a innervosire i mercati ci sono la ripetizione delle elezioni presidenziali in Austria e, soprattutto, le elezioni in Francia.
Infine preoccupano il voto tedesco, che da tempo sembra aver bloccato politicamente il paese in una lunga campagna elettorale, e il consolidarsi del gruppo di Visegrad, che riunisce alcuni paesi dell’Europa orientale che si stanno caratterizzando per politiche regressive sul piano dei diritti e proto-protezioniste in economia. Insomma per l’Europa si profila un contesto all’insegna dell’incertezza, con rischi di natura esterna e interna. Se poi il quadro globale stenta a ripartire, il peso specifico delle debolezze europee non può che aumentare e, come sempre accade, gli anelli deboli del Vecchio Continente sono i primi a entrare in fibrillazione.
In questo senso l’Italia ha problemi strutturali, come la bassa produttività e un debito consolidato ormai enorme, che non la fanno crescere. Ed ecco ripartire lo spread, un fenomeno che non si esaurisce nella nostra penisola, basti pensare che in Spagna alcuni mesi fa, quando il paese era ancora alla ricerca disperata di un governo, il suo spread era pari a 100 e ora, con il nuovo governo in carica, è balzato a 140. I grafici degli spread di Italia e Spagna, pur nelle loro differenze di partenza, sono andati a braccetto per tutto l’anno.
Per la prima volta, nonostante il Quantitative easing della Bce, lo spread è ripartito, in quanto in Europa le debolezze sul piano economico-finanziario e l’incertezza su quello politico risultano nuovamente elevate.
Così mentre una parte dei possessori stranieri di titoli pubblici italiani vende manca un adeguato sostegno domestico di banche, assicurazioni e cittadini, i quali, diversamente dal 2012, stanno investendo altrove. Tutto ciò rende più cari i nostri titoli pubblici. Questi appaiono i processi in corso, naturalmente al netto della propaganda referendaria nazionale e internazionale.
Fonte: il manifesto
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