La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 30 novembre 2016

Tutti contro il Cnel, la croce rossa del referendum. Un po’ di storia

di Manfredi Alberti 
Tra i cambiamenti previsti dalla riforma costituzionale ce n’è uno su cui sembra esserci un consenso trasversale, anche fra i sostenitori del No al referendum. Si tratta dell’abolizione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), un organo di rilievo costituzionale previsto dalla Carta del 1948 e istituito con legge ordinaria nel 1957. Sin dal suo insediamento il Cnel fu chiamato a svolgere attività di consulenza del governo e del parlamento in tema, dando voce al suo interno non soltanto ad esperti in materia economica e sociale, ma anche (e soprattutto) ai rappresentanti delle categorie produttive, nelle loro componenti imprenditoriali e operaie.
Quali sono le ragioni che hanno spinto il governo Renzi ad abolire il Cnel? Le motivazioni dichiarate sono essenzialmente due: i costi eccessivi dell’ente (20 milioni di euro annui) e la sua scarsa produttività (evidenziata dai soli 14 disegni di legge proposti dall’ente nei molti decenni della sua attività). Il primo argomento non meriterebbe neanche di essere esaminato, se non vivessimo in un tempo di retorica populista e antipolitica, in cui il tema dei «costi della politica» ha sostituito quello – un tempo centrale – della redistribuzione della ricchezza.
20 milioni annui (ovvero circa 40 centesimi per elettore) non sono certo un onere significativo per la pur fragile economia italiana. Il tema della produttività e dell’efficienza dell’ente ha invece indubbio rilievo, anche se va ricordato che tra le attività del Cnel non vi è stata solo la formulazione di disegni di legge, ma anche la funzione consultiva e quella di studio. I rimedi per migliorare l’efficienza del Cnel avrebbero potuto essere tanti, ma si è scelto invece di sopprimere l’ente, buttando via il bambino insieme all’acqua sporca.
C’è però dell’altro. A ben vedere, vi sono alcune ragioni più profonde (e mai esplicitate) che spiegano la scelta del governo di abolire il Cnel. È verosimile che così facendo i promotori della riforma si siano voluti sbarazzare di un fastidioso residuo del Novecento, il «secolo del lavoro» come lo ha definito Aris Accornero. Il Cnel, infatti, venne pensato dai padri costituenti all’interno di una repubblica fondata sul lavoro, ovvero una democrazia che conferisse effettivi poteri decisionali alla classe lavoratrice organizzata, dando massima rappresentanza agli individui non soltanto in quanto astratti cittadini, ma anche come produttori, in vista dell’obiettivo dell’uguaglianza sostanziale.
Come modello di riferimento i costituenti avevano innanzi tutto il Consiglio economico del Reich (un organo previsto dalla Costituzione di Weimar del 1919), da cui il Cnel riprese l’idea della rappresentanza dei lavoratori e degli imprenditori all’interno della dimensione statuale, in un’ottica di corporativismo democratico. Ma il vero antenato del Cnel, nel nostro paese, era stato il Consiglio superiore del lavoro, nato nel 1902 durante il governo Zanardelli e soppresso dal fascismo nel 1923. La legge istitutiva del Consiglio superiore del lavoro (oltre che dell’Ufficio del lavoro, organo di indagine statistica) era espressione di una svolta a sinistra nel quadro politico di allora.
La nascita del nuovo organo segnò l’affermazione, all’interno della classe dirigente liberale, della consapevolezza che lo Stato dovesse farsi carico della tutela della classe lavoratrice, basandosi sugli elementi di conoscenza forniti dall’indagine statistica e tenendo conto al contempo del punto di vista delle parti sociali. Il Consiglio superiore del lavoro, come successivamente il Cnel, era infatti un organo consultivo in cui era garantita la rappresentanza delle organizzazioni operaie e del mondo imprenditoriale. Tale istituzione si configurava così come un «parlamentino del lavoro», secondo l’espressione usata dal socialista Filippo Turati. Il Consiglio superiore del lavoro era chiamato a esprimersi su tutti i problemi legati alle condizioni dei lavoratori e ai rapporti fra questi ultimi e i datori di lavoro, potendosi avvalere dell’apporto conoscitivo fornito dall’Ufficio del lavoro.
Se il Cnel, nonostante i suoi innegabili limiti, è stato figlio del riformismo del Novecento (in una fase storica in cui il concetto di riforma aveva un significato di segno progressivo, oggi del tutto smarrito se non rovesciato), non stupisce più di tanto che il governo in carica abbia deciso di sbarazzarsene, usando lo specchietto per le allodole della riduzione dei costi della politica.
È innegabile che i limiti della riforma costituzionale vadano ben al di là della questione del Cnel. Ma è bene ricordarsi che il 4 dicembre, votando No, abbiamo l’ultima possibilità di bloccare una riforma che, nell’abolire il Cnel, tradisce l’intento più generale di rinnegare il fondamento egualitario e lavoristico della nostra repubblica.

Fonte: Il manifesto 

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