di Antonio Pio Lancellotti
La settimana che precede il voto referendario sul referendum costituzionale si è aperta con una nuova tempesta sulle borse italiane. Non si tratta certo di una novità, in questo 2016 segnato da non poche turbolenze finanziarie, soprattutto per i titoli bancari della penisola. Ma la sensazione, questa volta, è che il black monday sia stato in qualche forma “pilotato”. A cedere pesantemente terreno sono stati i “soliti noti”: Unicredit, UBI Banca, Banco Popolare, a cui si aggiungono Carige, la Popolare di Milano e quella dell’Emilia-Romagna, l’ormai cenerentola perenneMonte dei Paschi.
Proprio l’istituto toscano è stato molto attenzionato nella giornata di lunedì, che coincideva con l’inizio del raggruppamento delle azioni ordinarie, deciso in seguito alla riduzione del capitale sociale da 9 a 7,36 miliardi.
Un’operazione decisa nell’assemblea straordinaria di sabato 26 novembre e largamente bocciata da piazza Affari, visto che il titolo è stato più volte sospeso per eccesso di ribasso.
Proprio l’istituto toscano è stato molto attenzionato nella giornata di lunedì, che coincideva con l’inizio del raggruppamento delle azioni ordinarie, deciso in seguito alla riduzione del capitale sociale da 9 a 7,36 miliardi.
Un’operazione decisa nell’assemblea straordinaria di sabato 26 novembre e largamente bocciata da piazza Affari, visto che il titolo è stato più volte sospeso per eccesso di ribasso.
Che la debolezza dei titoli bancari italiani sia divenuta elemento congenito nel sistema finanziario internazionale è ormai tema risaputo, nonostante le non poche iniezioni pubbliche di liquidità e le normative ad hoc degli ultimi anni (si pensi innanzitutto al cosiddetto decreto “Salva Banche” del governo Renzi). Ma l’ultimo tracollo di piazza Affari è stato determinato principalmente da fattori esogeni, ed in particolare dall’esternazione del Financial Times rispetto al forte rischio di fallimento per 8 istituti di credito italiani in caso di vittoria del NO nelle urne del 4 dicembre.
Non è la prima volta che la testata londinese prende posizione in maniera netta rispetto al referendum italiano. Già alcune settimane fa il condirettore Wolfgang Münchau, noto sostenitore delle politiche espansive della Bce di Draghi, in un editoriale disegnava scenari apocalittici per l’Europa in caso di vittoria del NO, presagendo un’uscita forzata dell’Italia dall’euro. Entrambe le zampate del Financial Times sono stati abbondantemente cavalcati dai media nostrani, con Repubblica schierata sulla prima linea del fronte, e dagli stessi esponenti del Governo, ormai a corto di argomenti per tirare la volata al SI. Il Ministro Padoan ha immediatamente preso spunto dalle ultime esternazioni per rimarcare l’importanza di avere un sistema bancario solido, al fine di proseguire nella via di una fantomatica crescita economica.
Gli affondi del Financial Times non sono l’unico specchio del fatto che l’élite finanziaria mondiale abbia non solo apertamente sostenuto la riforma costituzionale, ma ne abbia addirittura generato le condizioni tecniche e politiche. Anche il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, uno dei falchi dell’austerità europea e tra i principali fautori dell’ordoliberismo, ha ribadito il proprio sostegno alle modifiche costituzionali proposte dal governo Renzi. Già nelle scorse settimane Schaeuble aveva dato prova di fiducia rispetto al premier italiano, tenendosi molto defilato nel “braccio di ferro” tra Roma e Bruxelles sulla Legge di Bilancio 2017 e sacrificando sull’altare della governamentalità interna all’Ue la sua battaglia oltranzista per il rigore dei conti pubblici.
I tifosi del SI non si fermano al Vecchio Continente. E’ ormai di alcuni mesi fa l’endorsement sul referendum dell’ambasciatore statunitense in Italia, John Phillips, il quale aveva messo in guardia sul fatto che un’eventuale vittoria del NO avrebbe scoraggiato gli investitori stranieri. Il problema, secondo Phillips, risiederebbe in un ritorno all’instabilità politica per il nostro Paese, di certo non apprezzata dai mercati finanziari. Più categorica l’agenzia di rating statunitense Fitch che, negli stessi giorni, parlava senza mezzi termini di uno «shock per l’economia italiana», in caso di sconfitta della proposta renziana al referendum.
L’interesse del mondo politico ed economico d’oltreoceano per le vicende politiche italiane, soprattutto legate alle cosiddette “riforme strutturali”, ha però le sue origini nell’ormai noto documento programmatico di JP Morgan datato 28 maggio 2013. Documento mirato alla ricerca di soluzioni al persistere della crisi, in cui il colosso dei servizi finanziari globali, tra i vari argomenti toccati, insiste largamente sulla necessità di modificare gli assetti costituzionali di alcuni Paesi sud-europei emersi in seguito a regimi dittatoriali. Le libertà civili, politiche, sindacali e sociali garantite dalle Costituzioni di questi Paesi, i cui movimenti di liberazione dai regimi fascisti sono stati egemonizzati dalle sinistre (che hanno anche influenzato il processo costituente), secondo JP Morgan sarebbero un freno alla ripresa economica europea. La “cura” ipotizzata sarebbe quella di aumentare il peso del potere esecutivo, riducendo sia gli ambiti di intervento del Parlamento e degli istituti periferici, sia i diritti nel mondo del lavoro.
Le analogie con questa riforma sono evidenti, ma è necessario contestualizzarle bene per comprendere al meglio i caratteri che, sul piano nazionale ma soprattutto internazionale, ne dimensionano il senso paradigmatico, impattando pienamente, in senso giuridico e politico, i processi di sovranità. La crisi ha accelerato, dentro la lunga e contradditoria transizione del comando da una dimensione statuale ad una globale, l’esautoramento dello Stato di diritto nella sua funzione storica di centro nevralgico della produzione giuridica. Come detto da Negri in Impero[1] ed in alcuni scritti successivi[2], la crisi dello Stato di diritto determina il passaggio delle forme del comando dagli strumenti delle leggi e delle regole a quelli delle norme e dei dispositivi, con l’effettività della norma che diventa egemone rispetto al quadro giuridico costituito[3]. Lo Stato di diritto si trasforma dunque in una sorta di Stato esecutivo o Stato dell’esecutivo, in cui la decisionalità governativa annienta non solamente la funzione legislativa degli organi eletti, ma anche qualsiasi forma di agibilità per i corpi intermedi e per quegli spazi di democrazia che, negli anni, le lotte hanno strappato al comando.
Il tentativo di riforma costituzionale in Italia rende emblematico questo passaggio, provando a fissare a livello di fonti primarie di giurisprudenza quanto già sta avvenendo nella Costituzione materiale del nostro e di altri Paesi. Gli interessi strategici della grande finanza, delle corporations e delle banche si sono già palesati in questa direzione e da tempo stanno provando a muovere i sottili fili della politica. Il capitale, che già ha ridefinito nella crisi gli assetti sociali incidendo profondamente sulle vite di miliardi di persone, prova adesso a ridefinire la governance attraverso le nuove istituzioni post-democratiche. In questo contesto è evidente che il 4 dicembre rappresenta, per l’Italia e non solo, un nodo cruciale.
Il dado non è già tratto e l’ineluttabilità non appartiene, per fortuna, a chi ha una concezione materialistica del mondo. Il rifiuto popolare di una riforma, che costituzionalizza una direttiva politico-finanziaria, può rappresentare un vero e proprio corto circuito all’interno di questo processo. Soprattutto perché il NO si è conformato, come aggregato politico e sociale, non solamente come opzione elettorale, ma anche e soprattutto come opzione di piazza.
[1] A. Negri, M. Hardt, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano, 2002, pp. 29-40
[2] Si veda ad esempio: A. Negri, La sovranità fra governo, eccezione e governance, www.uninomade.org, 9 febbraio 2011
[3] Si veda anche: A. Arienzo, Dalla corporate governance alla categoria politica di governance, in G. Borrelli, Governance, Napoli, 2004
Fonte: globalproject.info
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