Quando un contaballe annusa il rischio di essere definitivamente scoperto, ha due strade di fronte a sé: o si defila quatto quatto, oppure si gioca il tutto per tutto e le spara ancora più grossa. Ecco lo stato dell’arte del governo del buffone di Rignano a pochi giorni dal 4 dicembre, sulla via intrapresa non ci sono dubbi. Dal ponte sullo stretto ai quattrini promessi a destra e a sinistra in finanziaria, dalla riduzione dei costi della politica alla ricostruzione dei territori colpiti dal terremoto, dall’aumento dei soldi nella tasca delle partite Iva (gli stessi che vengono sfilati dall’altra tasca) alla defiscalizzazione del lavoro al Sud, la lunga marcia renziana verso il referendum è stata un progressivo crescendo di menzogne, direttamente proporzionali alla paura di perdere la poltrona tanto faticosamente conquistata.
Fino ad arrivare all’ultima sparata (anche se non escludiamo che, mentre l’editoriale viene pubblicato, il ducetto non ne abbia già trovate altre ancora più eclatanti): il sì è contro la casta!
Fino ad arrivare all’ultima sparata (anche se non escludiamo che, mentre l’editoriale viene pubblicato, il ducetto non ne abbia già trovate altre ancora più eclatanti): il sì è contro la casta!
Ogni commento sarebbe superfluo e perfino un insulto all’intelligenza di chi legge, se non fosse che sta proprio qui l’architrave retorica del renzismo. A partire dalla rottamazione (che ovviamente non c’è mai stata, basti pensare che il losco figuro che ha governato la transizione è stato il rottame Napolitano, per non parlare dei potenti uomini di industria, banca e finanza che sostengono il governo PD) la neolingua del piccolo fiorentino è fondata su una costante invocazione del nuovo contro il vecchio, dell’accelerazione contro chi vuole tornare indietro. È questa la metaballa, quella che le sorregge tutte: presentare il sì come il cambiamento, il no come la conservazione. Con questo inganno, ben più grande della truffaldina formulazione del quesito referendario, Renzi ha tentato in questi mesi di depersonalizzare il voto, dopo aver tastato il radicato odio nei confronti della sua persona. In questo modo fraudolento prova a indurre una parte di coloro che subiscono i costi della crisi a dire sì a chi la crisi la gestisce e la mette a valore, nell’illusione che qualcosa cambierà. È un messaggio rivolto in particolare ai giovani, i supposti destinatari del lessico della rottamazione.
E tuttavia, l’economia politica della promessa renziana si infrange contro il dato di fatto che oggi il sì rappresenta concretamente la conservazione dei rapporti di sfruttamento e di potere esistenti, la conservazione delle caste consolidate, la conservazione delle politiche che nella crisi rendono i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. Non è un caso che siano proprio i giovani quelli che, prevedibilmente, si schierano in forma maggioritaria per il no, mentre sono gli anziani a optare per il sì. Quello di domenica sarà un voto generazionale, non tanto o solo nel senso anagrafico del termine, quanto piuttosto perché a dire di no sono oggi quelli che vogliono costruire un futuro che è stato loro violentemente rubato. Di promesse ne hanno ascoltate troppe e sono state tutte tradite per poter ancora dire sì ai politici di governo. E sarà un voto di classe, nel senso che la questione di classe avrà un peso decisivo nell’orientare buona parte della scelta. Chi vota sì o è abbindolato dal significante vuoto del cambiamento, oppure è qualcuno che nella crisi sta bene o quantomeno pensa di potersela sfangare. Per gli altri, il meno peggio con cui il disperato Renzi e il PD cercano di presentarsi, è già il peggio della propria condizione di vita.
Prendiamo per esempio il decisivo tema delle banche, che nell’ultimo anno – innanzitutto grazie alla lotta dei risparmiatori truffati dal decreto salvabanche – si è rivelato spina nel fianco non rimarginabile per la tenuta del governo Renzi e, in prospettiva, di qualsiasi governo. Nel caso della sua banca di famiglia, Monte dei Paschi, il PD è arrivato al ricatto diretto: se vince il no ci sarà il bail-in, di fatto o formale, ovvero l’azzeramento dei risparmi di migliaia di famiglie. Non solo: i potentati finanziari internazionali – compattamente schierati a favore di Renzi, ça va sans dire – annunciano il crollo di otto banche se il 4 dicembre il sì esce sconfitto. Si tratta ovviamente di un allarme creato ad hoc, per tenere una pistola puntata alla testa di chi andrà a votare, come se si trattasse di un oggettivo fatto tecnico e non invece il frutto di decisioni politiche (è proprio di questi giorni la notizia del proscioglimento per i vertici di Banca Etruria, a dimostrazione di un sistema che assolve se stesso). Il potere tuttavia in questo modo, mentre racconta una balla, dice una verità: sì, la crisi e il fallimento delle banche sono una questione strutturale; no, non dipende affatto dal voto al referendum, ci sarà comunque. E allora il problema non è sperare nella carità dei banchieri e dei politici che li rappresentano, ma iniziare a fargliela pagare. Perché se si salvano loro falliamo noi, dunque l’unico modo per salvarci è fare fallire loro.
Sono questi i contenuti e in parte anche i soggetti scesi in piazza il 27 novembre. Che dire di quelle realtà del movimento romano che hanno boicottato, apertamente o dietro le quinte, la manifestazione? Prima hanno tentato la congiura del silenzio, unendosi così agli organi di informazione; poi hanno cercato uno squallido uso strumentale dell’importante giornata di “Non una di meno” in alternativa o addirittura contrapposizione a “C’è chi dice no”; infine, di fronte alla malaparata, hanno sperato nella pioggia, e anche questa gli è andata male. Il patetico boicottaggio, per giunta fallito, mostra con chiarezza almeno due dati. Il primo è l’autocompiaciuta marginalità politica in cui si rotola e grufola un numero cospicuo di realtà di movimento, a Roma e altrove. Il secondo è che le retoriche renziane sembrano qui far presa in un doppio senso. Da un lato, per paura dell’“accozzaglia” e dell’ignoto si preferisce stare nel noto della purezza identitaria dei propri simili. Vi è qui un complesso di subalternità, una nietzscheana morale dello schiavo, per cui ti tieni rancorosamente alla larga da qualsiasi processo ambiguo perché ti ritieni troppo debole per potervi imprimere una direzione autonoma. Dall’altro, vi è il più tradizionale opportunismo di chi preferisce non avere come nemico troppo esplicito il PD, perché con la fine della cosiddetta sinistra radicale un domani stipendi, concessioni e briciole si andranno a elemosinare direttamente da quelle parti. Nei dintorni di Sel e dei Peciola olimpionici hanno già capito l’antifona e si stanno muovendo di conseguenza.
“Viva Napoleone, viva il salsiccione”, cantavano le pance dei sottoproletari corrotti nel 1848. Qualcosa di analogo si inizia a udire già in sottoboschi non troppo lontani da noi. Sennonché la farsa da tempo immemore ha ormai lasciato il posto alle mediocri macchiette. Allora, affermare il NO, fare una scommessa dentro un caotico contesto in cui siamo tutt’altro che egemoni, significa oggi rompere non solo con il nemico, ma anche con noi stessi, con la nostra inerziale autoriproduzione, con il nostro adagiarci nel già noto. Questa sfida va giocata fino in fondo, progettualmente: il 27 è stato un buon inizio, e comunque solo un inizio. La sera del 4 dicembre dobbiamo essere pronti in ogni città ad affermare l’illegittimità del PD e mandarlo a casa, mettendo la lingua elettorale al servizio della spada del conflitto. La sfida non sta nell’esibire quello che già abbiamo, ma iniziare ad arrivare là dove finora non ci siamo stati e dove si giocano battaglie decisive. Sapendo che quando ci si muove in un contesto di massa contro un nemico principale, ci troveremo momentaneamente vicino alla puzza dei nemici di domani, o anche di quelli che oggi sono secondari. Non vince chi è più puro, vince chi organizza meglio le forze; non conta l’identità della tattica, ma la determinazione della strategia.
Far fallire il 18 brumaio dell’omuncolo di Rignano non dipende certo solo da noi, può però dipendere anche da noi. Non stiamo parlando del maledetto giugno 1848, se vogliamo continuare a giocare con le suggestioni del passato, stiamo parlando della possibilità tutta a venire di un 1905. E tuttavia, da lì ai ’17, si sa, per chi ha coraggio i salti talvolta sono più veloci di quello che la storia lasci pensare.
Fonte: Infoaut.org
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