di Paolo Solimeno
La modifica costituzionale proposta ha radicali difetti di legittimità e coerenza, propone un modello di democrazia lontano da quello prefigurato dal costituzionalismo democratico in cui sono iscritte le migliori democrazie occidentali, nate o perfezionatesi nel secondo dopoguerra. Insieme alla legge elettorale n. 52 del 2015, l’Italicum, trasformerebbe il sistema italiano in un premierato forte, senza garanzie, con una Camera succube del capo dell’esecutivo.
Lasciare che questo sistema entri in vigore vuol dire consegnare l’Italia a due padroni: i poteri economici e finanziari sovranazionali e il vincitore delle prossime elezioni, chiunque egli sia.
In modo alquanto sintetico elenco i motivi per cui ritengo dovrebbe esser respinto il ddl Boschi-Renzi per rinviare ad un eventuale, non urgente e non indispensabile piccola correzione del sistema istituzionale l’intervento migliorativo della Costituzione del 1947, evitando di stravolgerla nel modo frettoloso e pericoloso che ci propongono gli abusivi “costituenti” del 2016.
In modo alquanto sintetico elenco i motivi per cui ritengo dovrebbe esser respinto il ddl Boschi-Renzi per rinviare ad un eventuale, non urgente e non indispensabile piccola correzione del sistema istituzionale l’intervento migliorativo della Costituzione del 1947, evitando di stravolgerla nel modo frettoloso e pericoloso che ci propongono gli abusivi “costituenti” del 2016.
1. Legittimità di questo ddl costituzionale. Anzitutto un intervento così corposo che ridisegna quasi tutta la Seconda parte della Costituzione (eccettuato solo il Titolo IV sulla magistratura) introduce di fatto una nuova costituzione esercitando in modo abusivo un potere “costituente” che “non è previsto dal nostro sistema costituzionale: il potere costituente è un potere sovrano, che l’articolo 1 attribuisce al “popolo” e solo al popolo, sicché nessun potere costituito può appropriarsene; il potere di revisione è invece un potere costituito, il cui esercizio non può consistere nella produzione di una nuova Costituzione, ma solo in singoli e specifici emendamenti onde sia consentito ai cittadini, come ha più volte stabilito la Corte Costituzionale, di esprimere consenso o dissenso, nel referendum confermativo, alle singole, specifiche revisioni” (Luigi Ferrajoli, articolo del 25.6.2016 su http://www.libertaegiustizia.it/2016/06/25/un-monocameralismo-imperfetto-per-una-perfetta-autocrazia/ ). Intaccare tale principio vuol dire anche, di conseguenza, intaccare l’irreversibilità della scelta democratica in assoluto e nella particolare veste data dai costituenti nel 1946-’47: un’assetto istituzionale e dei diritti fondamentali nel quadro del costituzionalismo democratico e con peculiari accenti egualitari e pluralistici.
2. Legittimità del parlamento che ha approvato il ddl costituzionale. Le elezioni del 2013 che hanno formato il parlamento attualmente in carica hanno applicato, per la terza volta la legge elettorale n. 270/2005, il c.d. “Porcellum”, che è stata abrogata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1/2014 nelle sue parti fondamentali, il premio di maggioranza e le liste bloccate: in quella sentenza (si trova su http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2014&numero=1# ) la consulta ha ritenuto che il premio, pur perseguendo un obiettivo di “governabilità” legittimo, non potesse sacrificare in modo così eccessivo la funzione primaria e costituzionalmente necessaria della rappresentatività delle assemblee elettive. Tale netta e inconfutabile sentenza è contrastata da alcuni critici non per la correttezza del giudizio di merito, ma solo perché dubitano che un giudizio di costituzionalità su una legge elettorale possa ancora ritenersi “giudizio incidentale”, che è il meccanismo attraverso il quale si accede, dal giudice di merito, alla Corte (a sostegno però della piena accessibilità si è espressa con argomenti solidi l’ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione del 17.5.2013). Si aggiunga che i parlamentari eletti rappresentano gli elettori in modo del tutto irrazionale, a causa del premio e delle liste bloccate, ma per il principio di continuità delle istituzioni si è ritenuto che effetto della sentenza che rimuoveva le basi di legittimità del parlamento non potesse provocare lo scioglimento immediato dello stesso e, addirittura, l’annullamento delle leggi da questo approvate (effetti tutti che sarebbero ragionevole conseguenza dell’annullamento parziale della legge elettorale, secondo il principio di retroattività delle sentenze), ma questo non può indurre a considerare il parlamento, all’opposto, pienamente legittimo: la sentenza 1/2014 consente una proroga temporanea dei poteri delle camere (ed infatti richiama la “prorogatio” di cui all’art. 61 Cost.) fino a nuove elezioni con nuova legge elettorale, o con quella risultante dall’abrogazione, poteri rivolti a coprire le esigenze della “ordinaria amministrazione”, non certo ad esercitare il potere di revisione costituzionale ex art. 138, o addirittura il potere costituente (v. punto 1). Si consideri solo, in concreto, che disattendendo questo limite si consente che una forza parlamentare, non eletta per fare modifiche costituzionali e pari al 25% circa degli elettori, stravolga una Carta costituzionale approvata dal voto favorevole pari all’88% dei votanti di un’Assemblea costituente eletta con legge elettorale proporzionale e con lo specifico mandato di scrivere quella Carta.
3. Le modifiche di composizione e modalità di elezione del Senato. La modifica trasforma il Senato in camera non più eletta dal popolo, ma dai consigli regionali; e nella riduzione da 315 a 95 membri, di cui 21 sindaci e 74 consiglieri regionali, che una volta eletti senatori resteranno anche nelle loro cariche originarie. Il nuovo senato non rappresenterà le regioni, né il popolo né le istituzioni, per l’elezione indiretta di figure non qualificanti, per il ridotto numero di senatori (ben 10 regioni avranno solo 1 consigliere regionale senatore e 1 sindaco senatore), perché anche le regioni più grandi (la Lombardia avrà 14 senatori) eleggeranno senatori in base a spartizioni tra maggioranza e opposizione, o opposizioni, che senza vincolo di mandato andranno a coalizzarsi in senato su base partitica nazionale, non territoriale o istituzionale. Inoltre la riduzione del numero dei senatori stravolge l’equilibrio del parlamento ogni volta che sia chiamato a votare in seduta comune: si tratta delle importantissime elezioni del Presidente della Repubblica (art. 83, 2° c.), della sua messa in stato d’accusa (art. 90), dell’elezione di un terzo dei membri del Consiglio superiore della Magistratura (art. 104).
4. La modifica dei poteri dell’esecutivo. Nessun articolo del Titolo Terzo (Il Governo) è toccato dal ddl del governo, così si difendono Renzi e Boschi, ma intanto questa intera modifica è di iniziativa del Governo, quindi di parte, cosa invero anomala e contraria alla centralità del parlamento come luogo di confronto plurale dove sono rappresentate anche le forze non governative. Poi non si può non vedere che la Nuova costituzione darebbe al Governo dei poteri decisivi e potenzialmente illimitati:
a) il ddl “a scadenza fissa”, ovvero il potere (art. 72, VI comma) di chiedere alla Camera dei deputati di approvare entro 70 gg. un qualunque disegno di legge, solo perché dal Governo stesso sia “indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo”, una formula che non consente sindacato sull’abuso del potere (da parte del Presidente della Repubblica in sede di promulgazione, o della Corte cost. in sede di giudizio incidentale successivo), visto che l’indicazione è una mera potestà, salvo limitazioni da parte dei regolamenti parlamentari, e che potenzialmente potrebbe occupare buona parte del calendario della Camera senza consentire discussioni vere (si pensi ad es. ai 70 gg. occupati da manovre di maggioranza che bloccano il ddl in commissione) e col potere di ricatto derivante dal rapporto di fiducia, aggravato dal meccanismo della legge elettorale attualmente in vigore (l’Italicum); inoltre non il “programma di governo” non ha dignità costituzionale, ma di mera prassi, quindi non può considerarsi un parametro vincolante. Il richiamo all’istituto analogo previsto dalla costituzione francese non tiene conto del contesto costituzionale diverso e dei tanti limiti lì previsti per l’esercizio di questo potere (cfr. R. Tarchi, Osservatorio sulle fonti, 2/2014).
b) il potere di esercitare la “clausola di salvaguardia” (art. 117, IV c.), chiamando allo stato anche alcune delle poche competenze esclusive rimaste alle Regioni con il nuovo Titolo V per la tutela dell’interesse nazionale, sempre con il vincolo di controllo della maggioranza governativa e col potere di scavalcare eventuale voto contrario del Senato, limitandosi a votare con una facilmente raggiungibile maggioranza assoluta (art. 70, IV c.);
c) la nuova struttura istituzionale (Camera centrale nel procedimento legislativo, voto di fiducia dato solo alla Camera, predominanza numerica di questa sul Senato più che triplicata rispetto all’attuale rapporto, ecc.) è proposta senza che si introduca alcun vincolo alla futura legge elettorale, ad esempio con una più vincolante definizione del diritto di voto libero e uguale (art. 48) che imponesse l’introduzione di leggi elettorali capaci di garantire una sufficiente razionalità e rappresentatività della Camera, invece saremo nuovamente dipendenti dall’eventuale (art. 73, II c.) e probabilmente tardivo giudizio della Corte costituzionale;
d) non si introduce alcun rafforzamento delle istituzioni di garanzia (anzi, PdR, CSM e Corte Costituzionale sono indeboliti e resi a portata della maggioranza governativa). L’interpretazione della nuova Carta che tenga conto della attuale legge elettorale è la più preoccupante: con la maggioranza vinta, probabilmente al ballottaggio, si avrebbe il controllo del procedimento legislativo alla Camera, si potrebbe ottenere la messa in stato d’accusa del PdR (art. 90) con il voto di soli 25 senatori, oltre ai 340 della maggioranza alla Camera (ma anche una maggioranza più debole, comunque “governativa”, turberà l’indipendenza del PdR): praticamente il Governo può ricattare il Presidente della Repubblica e inibire l’esercizio di ogni suo potere di garanzia e ostacolo agli abusi dell’esecutivo (a partire dal rifiuto della promulgazione di leggi palesemente incostituzionali, o di sciogliere la Camera);
e) non si introduce alcuna concreta disciplina di poteri delle minoranze e delle opposizioni: è nominato lo “statuto delle opposizioni” (art. 64, II c.), ma la sua disciplina è rinviata ai regolamenti delle Camere, eppure ci sono esempi e letteratura da cui attingere per mettere in costituzione delle regole minime che garantiscano le minoranze (si veda il saggio di Antonuzzo su http://www.amministrazioneincammino.luiss.it/app/uploads/2016/06/Antonuzzo.pdf ); si modificano gli istituti referendari, ma il referendum abrogativo beneficerebbe di una saggia riduzione del quorum (art. 75, IV c.) solo se si raccoglieranno ben 800.000 firme; l’iniziativa di legge popolare dovrà raccogliere il triplo delle firme di oggi (150.000 invece di 50.000) avendo solo la garanzia di venir discussa e votata nei tempi che stabiliranno i regolamenti parlamentari (art. 71, III c.); altra norma “bandiera” (art. 71, IV c.) introduce il referendum propositivo e d’indirizzo che dovrà essere attuato da altra legge costituzionale e, dopo di questa, da legge di attuazione: nulla, quindi, per anni.
5. La modifica della forma di governo. Questo effetto si ha con una legge elettorale che, come l’Italicum già in vigore da luglio 2016, introduca un meccanismo che sfrutti gli spazi lasciati pericolosamente liberi dalla nuova costituzione e consenta ad una legge maggioritaria di trasformare una democrazia parlamentare in un premierato forte: premieratograzie ad una legge premiale che – qualunque sia il risultato delle votazioni – pretende di creare una maggioranza nell’assemblea elettiva, come ammette da tempo il suo ispiratore, Roberto D’Alimonte; e contemporaneamente determina l’elezione del presidente del consiglio attraverso una “indicazione” del capo della lista che risulti vittoriosa (al primo turno o al ballottaggio); e sarebbe un premierato forte perché mancherebbero i contrappesi (sia nuovi poteri di interdizione o codecisione di altri organi, ma sarebbero anzi indebolite le istituzioni di garanzia per lo squilibrio di numeri nelle cruciali votazioni di cui agli artt. 83, elezione PdR, 90, messa in stato d’accusa del PdR, 104, elezione di un terzo del CSM), e ci sarebbero anzi i rafforzamenti dell’esecutivo di cui si è detto al punto 4. Appare poi intollerabile che una radicale modifica della forma di governo e una così grave concentrazione di poteri sia fatta in modo surrettizio, senza discuterlo apertamente e smentendo l’intima connessione con la legge elettorale. Solo una legge elettorale rigidamente proporzionale per la Camera eviterebbe l’attacco al principio di equilibrio e separazione dei poteri, anche se lascerebbe in vita le numerose incongruenze e pericoli.
6. La modifica del bicameralismo. La differenziazione delle funzioni delle due camere non può esser detta urgente o indispensabile: nell’ultima legislatura ben 202 delle 252 leggi approvate è passata con una sola lettura in ciascuna camera, senza alcun rinvio per modifiche alla prima camera; altre 43 leggi sono passate con un solo rinvio, quindi tre passaggi (http://blog.openpolis.it/2016/10/19/referendum-leggi-veloci-leggi-lente/10661). Niente di patologico, nessuna urgenza nella modifica giustifica il modo illegittimo e il contenuto inefficace e confuso con cui viene proposta. Quanto poi alla fiducia al Governo dalla sola Camera dei deputati: la modifica potrebbe, in sé, esser considerata razionale e benvenuta, ma non si può motivarla sulla instabilità perché dei tanti governi (63) che si sono succeduti in 69 anni di repubblica con il bicameralismo perfetto, solo due sono caduti per il diniego della fiducia in parlamento (i due governi Prodi) e tutti gli altri sono cambiati anzitutto per pretese delle correnti interne della DC, in una anche eccessiva stabilità e continuità. Una modifica semplice al meccanismo della fiducia, l’introduzione della sfiducia costruttiva, avrebbe dato ben più stabilità al sistema. La trasformazione del Senato nelle sue funzioni non impone certo che non sia elettivo; e la sua rappresentatività, anche con l’elezione indiretta, avrebbe dovuto scegliere strade più chiare: non rappresenterà le istituzioni locali (come in Germania: nel Bundesrat siedono i governi con mandato vincolato), non rappresenterà le popolazioni locali (ben 10 regioni avranno solo 2 senatori, 1 sindaco e 1 consigliere regionale!), ma sarà una replica della rappresentanza partitica della Camera, ma con maggioranze probabilmente diverse: un intralcio, non un contrappeso, non un organo rappresentativo.
7. La modifica del Titolo V: un forte accentramento. L’intervento sul Titolo V è un forte revirement accentratore rispetto al principio tendenzialmente federalista introdotto nel 2001 tanto da consegnarci uno stato centralista, più di quello della originale versione del titolo del 1947. Le competenze esclusive statali del nuovo art. 117, II c., si moltiplicano (da 31 a 48), sono introdotte materie esclusive regionali, ma con riserve parziali allo stato che è chiamato a disciplinare parte delle materie, la regione dovrebbe completare, riproponendo così in sostanza la “competenza concorrente” che il legislatore si vanta di aver abolito: tutt’altro, si introducono concetti nuovi e non ancora vagliati in cui lo stato si contende le materie con le regioni, dettando ora le “norme generali e comuni”, ora le “disposizioni di principio”, ora imponendo interessi nazionali o sovranazionali su quelli regionali, ora semplicemente dettando una parte della disciplina (cfr. U. De Siervo, “I più chediscutibili contenuti del progettato art. 117 della costituzione”,su osservatoriosullefonti.it, 1/2016). In più, come detto sopra (punto 4, b), il Governo può esercitare con iniziativa legislativa una supremazia e chiamare a sé materie pur di esclusiva competenza regionale. La modifica non ha voluto toccare statuti e competenze delle cinque regioni a statuto speciale per il veto posto dai parlamentari rappresentanti di quei territori, consegnandoci così un sistema che costa miliardi di euro ogni anno ed una disparità ora intollerabile, e da tempo comunque priva di ragioni, rispetto alle spogliate regioni ordinarie: gli statuti speciali potranno esser modificati solo con “intesa” con i loro consigli, mentre oggi basta che siano “sentiti”; tutto il capo IV del ddl non si applica, mentre si applica il potere di espandere ulteriormente le loro competenze.
7. La modifica del Titolo V: un forte accentramento. L’intervento sul Titolo V è un forte revirement accentratore rispetto al principio tendenzialmente federalista introdotto nel 2001 tanto da consegnarci uno stato centralista, più di quello della originale versione del titolo del 1947. Le competenze esclusive statali del nuovo art. 117, II c., si moltiplicano (da 31 a 48), sono introdotte materie esclusive regionali, ma con riserve parziali allo stato che è chiamato a disciplinare parte delle materie, la regione dovrebbe completare, riproponendo così in sostanza la “competenza concorrente” che il legislatore si vanta di aver abolito: tutt’altro, si introducono concetti nuovi e non ancora vagliati in cui lo stato si contende le materie con le regioni, dettando ora le “norme generali e comuni”, ora le “disposizioni di principio”, ora imponendo interessi nazionali o sovranazionali su quelli regionali, ora semplicemente dettando una parte della disciplina (cfr. U. De Siervo, “I più chediscutibili contenuti del progettato art. 117 della costituzione”,su osservatoriosullefonti.it, 1/2016). In più, come detto sopra (punto 4, b), il Governo può esercitare con iniziativa legislativa una supremazia e chiamare a sé materie pur di esclusiva competenza regionale. La modifica non ha voluto toccare statuti e competenze delle cinque regioni a statuto speciale per il veto posto dai parlamentari rappresentanti di quei territori, consegnandoci così un sistema che costa miliardi di euro ogni anno ed una disparità ora intollerabile, e da tempo comunque priva di ragioni, rispetto alle spogliate regioni ordinarie: gli statuti speciali potranno esser modificati solo con “intesa” con i loro consigli, mentre oggi basta che siano “sentiti”; tutto il capo IV del ddl non si applica, mentre si applica il potere di espandere ulteriormente le loro competenze.
L’incoerenza del ddl costituzionale si somma così al suo chiaro intento di riduzione delle garanzie e dell’equilibrio delle funzioni e di separazione dei poteri, di esaltazione dell’esecutivo senza i lacci delle garanzie e del pluralismo, dei limiti al potere, chiunque lo detenga. La “Nuova Costituzione Renziana” si qualifica come il più determinato e sgangherato attacco al costituzionalismo democratico, intento reazionario un po’ guascone e un po’ golpista che dobbiamo respingere senza tentennamenti.
Fonte: Hyperpolis
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