di Federico Fornaro
In premessa desidero confessare pubblicamente un profondo disagio per il tono e il complessivo andamento di una campagna referendaria troppo lunga e soprattutto eccessivamente caratterizzata da toni e da una aggressività che nulla hanno a che fare con lo spirito con cui i costituenti scrissero l'art.138 della Costituzione. Detto in altri termini il referendum costituzionale non è e non deve essere un referendum sul governo in carica. Per un giudizio sull'operato del presidente del Consiglio e della sua maggioranza, in democrazia, da sempre ci sono le elezioni politiche.
Però, chi è causa del suo mal pianga se stesso: è stato Renzi a voler personalizzare il referendum, arrivando ad annunciare che in caso di vittoria del No avrebbe addirittura lasciato la politica; poi ha detto che aveva sbagliato, ma oramai il danno era fatto e naturalmente le opposizioni non aspettavano altro...
In Parlamento il sottoscritto ha votato a favore del disegno di legge di riforma costituzionale, non ha partecipato al voto sull'Italicum e domenica 4 dicembre voterà convintamente No al referendum.
In tempi non sospetti, infatti, ho sostenuto (e lo riconfermo) che nella riformaoggetto del quesito referendario ci sono cambiamenti utili e convincenti (per esempio il principio del superamento del bicameralismo paritario e il quorum mobile sui referendum) e altri contraddittori e pasticciati (funzioni e composizione del Senato e retromarcia centralista nel rapporto Stato-Regioni) e che l'intero disegno riformatore andasse giudicato alla luce dell'entrata in vigore, il 1 luglio scorso, della nuova legge elettorale della Camera (l'unica con un rapporto fiduciario con il Governo), meglio nota come Italicum, che, nei fatti, può alterare gli equilibri costituzionali tra rappresentanza e governabilità e quelli, non meno importanti per una democrazia, tra Esecutivo e Parlamento.
Qualcuno, poi, ricorderà la tensione (condite dall'accusa di essere gufi sabotatori etc.) nel Pd, generata dalla richiesta della minoranza dell'elezione diretta del Senato. Sono felice nel vedere che Renzi oggi dica pubblicamente che saranno gli elettori a eleggere i loro senatori.
Peccato, però, che per la testardaggine del Governo nel non voler riscrivere l'articolo, il testo della riforma si presti a interpretazioni non univoche e necessiti di una legge attuativa che dovrà cercare di far quadrare il cerchio con un consiglio regionale che elegge (comma 2 del nuovo articolo 57), in conformità alle scelte espresse dagli elettori il giorno delle elezioni regionali (comma 5).
Non sarebbe stato più semplice scrivere in Costituzione - come proponeva la minoranza - che il Senato era eletto dai cittadini, pur non dando più la fiducia al Governo?
Allo stesso modo, con spirito costruttivo, il 20 gennaio 2016, giorno in cui abbiamo votato in Senato per l'ultima volta la riforma, presentammo in una conferenza stampa un disegno di legge (a mia prima firma) per l'elezione del nuovo Senato chiedendo ai vertici del Pd di aprire un confronto anche al di fuori del Parlamento.
Seguì un silenzio tombale, rotto solo - mesi e mesi dopo - a ottobre, da un intervento di Renzi alla Direzione in cui annunciava che il Pd lo assumeva come testo base. Perché far passare così tanto tempo, un periodo in cui si sarebbe potuto ricercare, anche alle forze di opposizione in Parlamento, un'intesa per la legge elettorale sul nuovo Senato, e fornire così una risposta certa ai cittadini al quesito su come saranno eletti i nuovi senatori?
Arriviamo, poi, al nodo cruciale del disegno complessivo sottoposto al giudizio dei cittadini il 4 dicembre prossimo (riforma costituzionale e leggi elettorali): l'Italicum.
È giusto ricordare che al Senato la minoranza non partecipò al voto e alla Camera votò contro la fiducia posta dal Governo (unici precedenti: legge fascista Acerbo e legge truffa del '53), dopo che dieci componenti furono sostituiti d'autorità nella Commissione Affari Costituzionali e il capogruppo Speranza si dimise (caso raro in Italia) per rimanere coerente con le sue posizioni contrarie.
Anche le nostre critiche all'Italicum credo siano ampiamente conosciute (capilista bloccati con conseguente maggioranza dei deputati non scelti dagli elettori ma dai partiti, dieci pluricandidature, collegi da 600.000 abitanti e rischio sistemico di deformazione senza limiti della rappresentanza con il premio di maggioranza assegnato con il ballottaggio).
Siccome il tempo è galantuomo, dopo le elezioni amministrative di quest'anno sono iniziati a comparire a frotte, dentro e fuori il Pd, i "pentiti" dell'Italicum.
Anche su questo aspetto, cruciale per il buon funzionamento di una democrazia, insieme ad altri colleghi della minoranza non ci siamo limitati a dire No, ma ai primi di luglio 2016 abbiamo depositato al Senato un disegno di legge (sempre a mia prima firma), noto come Mattarellum 2.0, chiedendo ai due capigruppo Pd di Camera e Senato di avviare da subito una iniziativa politico-parlamentare per cambiare l'Italicum prima del referendum.
Risposta: l'immobilismo totale, fino alla Direzione dello scorso mese quando Renzi ha aperto alla modifica dell'Italicum con l'istituzione di una Commissione Pd che dopo alcune settimane, fuori tempo massimo, ha prodotto un documento generico e privo di qualsivoglia efficacia pratica.
Il risultato finale, infatti, è di una disarmante semplicità: quando il 4 dicembre i cittadini dovranno decidere come votare al referendum, la legge elettorale in vigore per l'elezione dell'unica Camera che dà la fiducia al governo sarà l'Italicum. Tutto il resto sono chiacchiere, olio sull'acqua.
In ultimo, poi, il mio convincimento per il No al referendum si è rafforzato alla vista di manifesti ufficiali e ufficiosi a sostegno del Sì improntati alla più bieca stagione dell'antipolitica, con i parlamentari, in particolare i senatori, ridotti unicamente a poltrone e stipendi da tagliare.
La strada maestra da seguire (ma non la si è voluta percorrere per precisa volontà del Governo) per raggiungere il condivisibile obiettivo della riduzione dei parlamentari era molto semplice: una Camera di 400 deputati e un Senato con 200 senatori.
Quando votai la riforma, mai avrei pensato di autorizzare un simile scempio, degno della peggiore stagione del qualunquismo e del più becero antiparlamentarismo: altro che Sì come argine contro il populismo e i piccoli Trump nostrani.
Voterò e invito a votare No, dunque, non certo perché si debba avere paura del cambiamento, ma anche per difendere un patrimonio di cultura costituzionale e istituzionale del centro-sinistra italiano (in questa sede non si può non ricordare il fondamentale contributo del cattolicesimo democratico) che, dal lontano 1946, ha sempre interpretato la Costituzione come il simbolo dell'unità, della coesione nazionale e un argine contro le derive antidemocratiche, e non certo come uno strumento per dividere e lacerare il già fragile tessuto democratico della nostra Italia.
Fonte: Huffington Post - blog dell'Autore
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