La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 30 novembre 2016

Il mio NO alla controriforma eversiva di Morgan-Napolitano-Renzi

di Piergiorgio Odifreddi
Manca meno di una settimana al voto che domenica prossima deciderà le sorti della Riforma Costituzionale, le cui linee guida sono state dapprima suggerite dalla banca JP Morgan Chase e in seguito recepite dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, implementate dal presidente del Consiglio Matteo Renzi e dalla ministra per le Riforme Costituzionali Maria Elena Boschi e imposte a un esautorato e acquiescente Parlamento. Questo singolare iter configura un irrituale stravolgimento dei ruoli istituzionali. Come dicono infatti i loro stessi nomi, dovrebbe essere il legislativo a fare le leggi, mentre all’esecutivo spetterebbe il dovere di eseguirle e farle eseguire.
Quanto al presidente della Repubblica, la formula del suo giuramento gli imporrebbe di “osservare lealmente la Costituzione” vigente, pena l’accusa di attentato alla stessa (articolo 90). Nessun ruolo legislativo, nemmeno consultivo, è invece previsto dalla Costituzione per le banche. 
L’irrituale inversione dei ruoli istituzionali è continuata anche durante la campagna referendaria, alla quale hanno partecipato iperattivamente e personalmente l’ex presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio, la Banca d'Italia e persino il presidente degli Stati Uniti e la stampa estera: tutti e tutte, ovviamente, schierati e schierate a favore del Sì, visto che quella che viene sottoposta a referendum è appunto la riforma Morgan-Napolitano-Renzi. 
Basterebbe questa premessa per spingere a votare No non soltanto alla Riforma Costituzionale, ma anche e soprattutto allo stravolgimento del sistema democratico perseguito da una simile cospirazione di poteri istituzionali deviati e poteri economici devianti, potenzialmente e attualmente eversivi. Ma oltre che per una motivazione di principio, la Riforma Costituzionale va rifiutata anche per un giudizio di merito, riguardante ciascuno dei punti salienti enumerati esplicitamente sulla scheda referendaria. 
Prima di ricordarli brevemente è però doveroso sottolineare che quei punti non esauriscono affatto le modifiche costituzionali che sono state surrettiziamente introdotte nel corso degli ultimi anni. E’ ad esempio esclusa dal referendum la modifica di fatto dell’articolo 1 della Costituzione, che recita: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro, e la sovranità appartiene al popolo”. 
Le manovre congiunte della Banca Europea e del’ex presidente della Repubblica Napolitano per portare e mantenere al governo Mario Monti nel 2011–2013 e Matteo Renzi nel 2013–2016, così come lo smantellamento dei diritti dei lavoratori richiesto dalla JP Morgan e attuato dal Jobs Act, rendono di fatto vane le perorazioni dell’articolo 1 a proposito della democraticità del paese e della sovranità popolare, da un lato, e del fondamento sul lavoro, dall’altro. 
Coerentemente con l’aspetto eversivo delle riforme proposte e imposte dal governo Renzi, queste modifiche sostanziali e di fatto della Costituzione non vengono però sottoposte al giudizio della sovranità popolare, che è invece chiamata a pronunciarsi sulle seguenti modifiche secondarie e formali. 
1) Superamento del bicameralismo paritario 
In realtà il bicameralismo paritario non è mai esistito in Italia, perché Camera e Senato erano elette non solo da elettorati diversi, ma anche con leggi elettorali diverse. Di conseguenza i due rami del Parlamento non erano affatto politicamente identici, e spesso esprimevano addirittura maggioranze diverse. Le supposte lungaggini del processo legislativo non erano dunque dovute alla semplice duplicazione dell’iter delle leggi, ma al complicato processo di mediazione che è l’essenza della democrazia, benché la Riforma Costituzionale e l’annessa legge elettorale mirino dichiaratamente a depotenziarlo e ad aggirarlo. 
In ogni caso, è noto che l’Italia è uno dei paesi al mondo con il maggior numero di leggi, e in governi precedenti era stato addirittura istituito un ministero della Semplificazione per sfoltirne la giungla. Evidentemente il supposto bicameralismo paritario non aveva impedito un eccesso di legislazione inutile e complicata, così come non ha impedito l’approvazione dell’attuale Riforma Costituzionale in soli due anni e con multipli passaggi in entrambi i rami del Parlamento. Il problema non è dunque creare meccanismi che permettano di produrre ancora più leggi, ancor meno condivise, ma di farne molte meno e molto migliori. 
2) Riduzione del numero dei parlamentari 
E’ innegabile che anche un solo deputato o un solo senatore in meno costituiscano una riduzione del numero dei parlamentari. La riforma Morgan-Napolitano-Renzi lascia però invariata la Camera con tutti i suoi 630 deputati: un numero ipertrofico non solo in assoluto, ma anche in paragone ai 435 membri del Congresso degli Stati Uniti, che rappresentano una popolazione cinque volte superiore a quella italiana. 
Il Senato è stato in effetti ridotto da 315 a 100 senatori, che però non sono più eletti, bensì cooptati dai consigli regionali (74), dai comuni (21) e dal presidente della Repubblica (5). E, paradossalmente in tempi di maggioritario, i seggi sono attribuiti in maniera proporzionale alla consistenza delle regioni, andando da 2 per le regioni piccole a 14 per la Lombardia: nel Senato degli Stati Uniti, invece, ognuno dei 50 stati è rappresentato da 2 senatori, per equilibrare l’influenza di quelli piccoli e quelli grandi. 
La formazione del nuovo Senato è talmente stupida e confusa, che persino il presidente del Consiglio si è già detto disposto (per quanto possa valere la sua parola) a modificarla. E’ dunque possibile, di nuovo paradossalmente, che questa parte della riforma debba essere cambiata ancor prima di entrare in vigore, a testimonianza di quanto sia stata raffazzonata. 
In ogni caso, il numero totale dei parlamentari scende soltanto da 945 a 730 parlamentari, con una timida riduzione del 20 per 100 circa: più o meno la stessa entità della riduzione della Camera e del Senato approvata dal governo Berlusconi e respinta dal referendum del 2006, che prevedeva 770 parlamentari. 
3) Contenimento dei costi delle istituzioni 
E’ di nuovo innegabile che anche un solo euro risparmiato costituisca un contenimento dei costi delle istituzioni, ed è vero che i nuovi senatori riceverebbero l’indennità dalle regioni o dai comuni dai quali provengono. Ma i costi del funzionamento della sede e della macchina del Senato rimarrebbero. 
In ogni caso, il risparmio di circa 60 milioni di euro sul Senato non è che una goccia nel mare dei costi e degli sprechi della macchina statale. La Riforma Costituzionale, nonostante gli slogan, non intacca gli stipendi dei deputati e dei consiglieri regionali, che pure costituiscono uno dei cavalli di battaglia del populismo. E, soprattutto, non intacca i circa 23 miliardi di euro delle spese valutati da uno studio della Uil, che richiederebbero un abbattimento radicale dei rami inutili della macchina statale, regionale e locale, invece che miseri palliativi. 
Volendo iniziare ad affrontare seriamente il problema del contenimenti dei costi, da un lato si sarebbero potuti semplicemente dimezzare gli stipendi dei parlamentari e dei privilegiati funzionari della Camera e del Senato. E, dall’altro lato, si sarebbe potuto cancellare con un sol colpo di penna il famigerato articolo 7 della Costituzione, che mantiene in vita l’altro grande serbatoio dei costi e degli sprechi costituito dai finanziamenti alla Chiesa, anch’essi valutati nell’ordine di una decina di miliardi. 
4) Soppressione del Cnel 
Che il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro sia un ente inutile, da abolire come tutti gli enti inutili, è un’ovvietà: se non altro, perché ha solo funzioni consultive, ed esprime pareri non vincolanti. Ma ancora una volta la sua abolizione è solo uno specchietto per le allodole. 
Anzitutto, i suoi costi si aggiravano sui 20 milioni di euro all’anno fino a quando c’erano 120 consiglieri, ma sono scesi a meno di 10 milioni da quando ce ne sono poco più della metà. Inoltre, come già è successo per le province, i consiglieri e i funzionari non sarebbero licenziati, ma semplicemente trasferiti alla Corte dei Conti. Infine, anche i costi di gestione della sede, che sono circa un terzo dei costi citati, ovviamente rimarrebbero: soprattutto se, come pare, sulla Villa Lubin ha già messo gli occhi Renzi, che sembra volerla utilizzare come una Casa Bianca italiana. 
Una lotta seria al folto sottobosco degli enti inutili andrebbe condotta con il machete, scovandoli e abbattendoli senza pietà. I tentativi di censimento, dai rapporti dell’onorevole Raffaele Costa alle indagini di Report, hanno svelato costi che arrivano ad almeno 20 miliardi annui, di fronte ai quali i 10 milionisbandierati dalla Riforma Costituzionale sanno più che altro di presa in giro per tacitare gli allocchi. 
5) Revisione del titolo V della parte II della costituzione 
Quest’ultimo punto costituisce la ciliegina sulla torta della riforma Morgan-Napolitano-Renzi. Il titolo V da rivedere non è infatti quello della Costituzione originaria, ma una sua modifica introdotta a maggioranza dal governo Amato nel 2001 e confermata da un referendum analogo a quello attuale. 
Il che smentisce, anzitutto, le menzogne diffuse dal presidente del Consiglio durante tutta la campagna referendaria, secondo le quali l’attuale riforma sarebbe qualcosa che non è mai stato fatto in settant’anni, e un treno che se perso non ripasserà per altri settanta. In realtà, tra il 1963 e il 2012 sono state approvate ben 15 leggi di revisione costituzionale, e una di esse era appunto quella che ora viene di nuovo rivista: non sorprendentemente, vista che anch’essa era raffazzonata e affrettata, e presentata dai Democratici di Sinistra (Ds) a fine legislatura per motivi elettorali. 
Lungi dall’essere solo tecnici, però, i motivi per la sua revisione attuale sono anche e soprattutto politici. Il Partito Democratico di cui Renzi è oggi segretario non ha infatti più nulla a che vedere non soltanto con il suo predecessore storico che era al governo nel 2001, ma neppure con quello omonimo che ha conquistato la maggioranza dei seggi alla Camera nel 2013. Se gli stessi parlamentari del Pd eletti con il programma di centro-sinistra di Bersani sostengono ora quello di centro-destra di Renzi è perché si sono macchiati della colpa dell’ennesimo ribaltone, o tradimento, della storia della nostra Repubblica delle Banane. 
Lo dimostrano in maniera palese le recenti vicende del decreto e delle leggi di attuazione della riforma della Pubblica Amministrazione proposta dalla ministra Marianna Madia, dichiarate incostituzionali l’altro ieri dalla Corte Costituzionale perché confliggono appunto con il titolo V com’era stato revisionato dal centro-sinistra nel 2001 e approvato dall’elettorato referendario. 
Queste vicende ci ricordano che il 4 dicembre non si vota soltanto su un’asettica Riforma Costituzionale, ma anche e soprattutto sui princìpi che l’hanno ispirata, e sugli uomini e le donne che l’hanno voluta e imposta. Avremo l’occasione di far piazza pulita di tutti e tutte in un colpo solo, da Napolitano (moralmente) a Renzi, dalla Boschi alla Madia, e sarebbe un peccato se non lo facessimo. Anche perché, se così sarà, rivedremo e rivivremo veramente ciò che abbiamo già visto negli ultimi vent’anni: un ventennio di governo incompetente e conservatore, che proseguirà e perfezionerà il suo vero obiettivo, che è l’abbattimento dell’articolo 1 della Costituzione.

Articolo pubblicato su La Repubblica 
Fonte: MicroMega online 


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