La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 30 novembre 2016

Voto No perché il combinato disposto tra riforma e Italicum è una trappola

di Andrea Giorgis 
Il prossimo 4 dicembre verremo chiamati a pronunciarci sulla riforma costituzionale, approvata dalle Camere lo scorso aprile. Si tratta di una riforma controversa, che ha diviso i parlamentari e che sta dividendo il Paese e anche il nostro partito. Nel merito – come abbiamo già osservato - presenta luci e ombre.
Accanto all’introduzione di alcune apprezzabili misure di garanzia (come l’innalzamento del quorum per eleggere il Presidente della Repubblica o il sindacato preventivo sulle leggi elettorali) e all’altrettanto apprezzabile superamento del bicameralismo paritario, contiene diverse sgrammaticature (specie nel riparto delle competenze tra Stato e Regioni e tra Regioni ordinarie e Regioni a statuto speciale, che potrebbero dar luogo a incertezze e conflitti) e soprattutto la trasformazione del Senato in una seconda Camera dalla incerta natura e dalla probabile fragilità (pur essendo chiamata a partecipare, e in maniera significativa, al procedimento legislativo).
La domanda che sorge spontanea è allora se, nel complesso, mettendo a confronto i pregi con i difetti, essa costituisca comunque un passo in avanti che può contribuire a migliorare la qualità della nostra democrazia rappresentativa e della forma di stato, oppure rappresenti un arretramento che può condurre a un ulteriore indebolimento della sfera politico-democratica.
La risposta non è semplice, perché dipende da molti fattori, di merito e di contesto politico, giuridico e sociale.
La stessa disposizione giuridica, com’è noto, può produrre effetti anche opposti a seconda del contesto in cui è fatta vivere, e per quanto riguarda la forma di governo e l’assetto democratico rappresentativo molto dipende dalle caratteristiche della legge elettorale, dalla conformazione del sistema dei partiti e dalla c.d. legislazione elettorale di contorno.
Una buona riforma costituzionale, inoltre, deve saper unire il Paese e non dividerlo: la sua efficacia e la sua durata nel tempo dipendono infatti dal grado di consenso che ottiene e dal suo essere percepita e vissuta come un nuovo insieme di regole condivise.
Quanto ciò oggi sia problematico è sotto gli occhi di tutti noi. La personalizzazione del voto referendario e la sua trasformazione in un giudizio sul Governo e sulla figura del Presidente del Consiglio e segretario del Pd, e prima ancora l’introduzione di una legge elettorale che riduce gli spazi di partecipazione e determina di fatto l’elezione diretta del governo (in contrasto con la forma di governo parlamentare) non hanno certo contribuito a mitigare il peso dei limiti e delle contraddizioni che la riforma costituzionale presenta. Gli argomenti che sono stati utilizzati per illustrarne gli “obiettivi” e la legge elettorale hanno anzi contribuito ad alimentare l’idea che la consultazione popolare concerna – non solo la riforma del Titolo V e il superamento del bicameralismo paritario – ma soprattutto l’introduzione di un modello di democrazia rappresentativa, caratterizzato dalla progressiva marginalizzazione dei corpi intermedi e dalla verticalizzazione dei processi partecipativi e decisionali, oltre che dall’irrigidimento delle dinamiche parlamentari confinate a una sorta di attività “esecutiva”. L’ipotesi del resto trova autorevole conferma nelle parole di Roberto D’Alimonte, ad avviso del quale l’Italicum e la riforma costituzionale “sono strettamente connesse. Tanto connesse che vivranno o cadranno insieme”. Perché – prosegue D’Alimonte - “E’ la combinazione di Italicum e riforma costituzionale … a creare le condizioni di un diverso modello di democrazia” nel quale, “attraverso il ballottaggio, … i cittadini scelgono direttamente i governi, così come scelgono i sindaci e i governatori” (così su il Sole 24ore del 2.10.2016, e in senso analogo La Stampa del 3.10.2016 e da ultimo il Corriere del 10.11.2016).
Con generosità Gianni Cuperlo si è adoperato per correggere una simile torsione e restringere la portata del quesito, arrivando a strappare un impegno del Vicesegretario, del Presidente del Pd e dei Capigruppo a riconsiderare alcuni aspetti dell’Italicum. E’ un risultato politico, senza dubbio importante, che necessitava però di essere precisato e tradotto in atti concreti (o almeno simbolici) che ne chiarissero il contenuto e ne confermassero l’effettiva realizzazione: per depositare un disegno di legge - a prima firma del Presidente del Consiglio e del Ministro delle riforme (così come a loro prima firma furono presentati l’Italicum e la riforma costituzionale) - che elimini il ballottaggio di lista (sostituendolo con un ragionevole premio di governabilità) e riconduca la legge elettorale nell’alveo della forma di governo parlamentare occorrono pochi giorni, e pochi giorni occorrono anche per incardinarlo in commissione.
Sono trascorse ormai più di due settimane dall’accordo, ma, purtroppo, nulla è avvenuto (né è stata convocata una Direzione del partito, né un’assemblea dei gruppi parlamentari, come pure era stato annunciato).
E ciò che conta, al di là della buona o cattiva fede, è offrire agli elettori elementi di chiarezza sul reale oggetto politico sostanziale del referendum.
Nel corso dei lavori parlamentari - occorre peraltro riconoscere - si sono consumati diversi errori e forzature che anche noi, pur registrandoli e denunciandoli, abbiamo sottovalutato, a partire dal procedere alla votazione finale con l’aula mezza vuota. Più saggio sarebbe stato svolgere un supplemento di analisi e insistere nella ricerca di un accordo, prolungando di qualche mese i lavori e, soprattutto, sganciando le sorti del Governo da quelle della riforma, ovvero, come abbiamo chiesto tante volte, parlamentarizzando maggiormente il confronto.
Purtroppo il trascorrere del tempo e la campagna elettorale anziché sanare queste ferite “procedurali” le stanno acuendo, e giorno dopo giorno sembra farsi sempre più concreto il rischio che la Carta costituzionale veda indebolito il proprio carattere “pattizio” e compromissorio” e accentuato il profilo “di decisione” che una parte impone all’altra.
Anche per queste ragioni, il prossimo 4 dicembre, voterò no, con amarezza e con lo stesso travaglio che avverto in molti compagni e amici che hanno dichiarato di votare sì (e con i quali sento di appartenere alla medesima comunità).

Fonte: controlacrisi.org 

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