di Giacomo Bottos
Una vecchia maledizione cinese, ormai famosa, recita “Che tu possa vivere in tempi interessanti”. È una condizione che ormai conosciamo bene e che non accenna a terminare. È appena il caso di ricordare alcuni avvenimenti recenti – come la Brexit e l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca – che rendono questo passaggio storico significativo. Non si tratta evidentemente di fatti che emergono dal nulla, essendo il risultato di lunghi processi di gestazione. Certo, in fasi come queste, dove gramscianamente “il vecchio non muore e il nuovo non vuole nascere”, il ruolo dell’accidentalità assume un grande peso. Il colpo di pistola all’arciduca può essere, in questo frangente, la volontà di una cancelliera di procrastinare salvataggi decisivi per via di scadenze elettorali imminenti, la decisione di un leader di indire un referendum su temi cruciali per ragioni di consenso interno, oppure la frase pronunciata da un banchiere centrale.
Quel che è certo è che questi episodi – nella loro banalità e nell’enormità delle loro conseguenze – sono segni di un’epoca nella quale non siamo più capaci di interrogarci sul presente.
Quel che è certo è che questi episodi – nella loro banalità e nell’enormità delle loro conseguenze – sono segni di un’epoca nella quale non siamo più capaci di interrogarci sul presente.
Mettere al centro della discussione il tema della cultura politica significa già focalizzarsi su questo. Al tempo stesso, però, bisogna dissipare subito un equivoco. Potrebbe sembrare che questo tema appaia generico e che rischi di dare luogo a una discussione astratta o, per un altro verso, passatista. In realtà l’idea di cultura politica, se chiarita, ha un significato ben definito e implica una precisa idea di politica. Anzi, si può forse affermare che se la politica oggi è inefficace, se non è in grado di agire con successo sui processi, è proprio per un deficit di cultura politica.
Ma in che senso? Si può partire da una “definizione minima” della cultura politica. La cultura politica propria di una forza progressista si dovrebbe impostare su tre elementi fondamentali:
- una cultura comune all’intera classe dirigente, che fondi un orizzonte di senso condiviso;
- una base identitaria e un senso comune diffuso all’interno di un blocco sociale;
- un insieme di politiche tra loro coerenti e fondate su una solida teoria socio-economica.
Questi tre elementi della cultura politica, quando le cose funzionano, si corroborano tra loro in un circolo virtuoso. La classe dirigente realizza, a diversi livelli, le politiche, elaborate sulla base di una riflessione teorica, politiche che, a loro volta, ampliano e rafforzano il blocco sociale, da cui emerge nuova classe dirigente, che porta a un maggiore livello di elaborazione il senso comune diffuso. Quando le cose non vanno, avviene l’inverso: classe dirigente e popolo hanno culture e sentire distanti, la selezione avviene per altri canali, le politiche non rafforzano il blocco sociale di riferimento e la sfiducia reciproca aumenta sempre più. Se non arrestato in tempo, un simile circolo vizioso può portare alla morte di un programma politico. Questo è ciò che rischia di avvenire oggi.
Si potrebbe subito obiettare che questo modello non sia più adeguato alla situazione presente. Invece è proprio l’analisi della situazione che lo rende attuale. Quando ci fu la crisi del 2007-2008 per un periodo si pensò che tutto sarebbe cambiato e in effetti lo sconvolgimento fu grande. Questo fu particolarmente evidente una generazione cresciuta in un mondo che presentava certe coordinate, che ponevano precisi limiti (tanto più efficaci in quanto inavvertiti) a ciò che era concepibile e in particolare alla sfera di azione della politica. Anche a quelli che si ponevano in maniera critica nei confronti dell’ordine delle cose, appariva evidente la forza e la consistenza dell’ordine contro cui combattevano. C’è una bella frase nel libro di Salvatore Biasco (Regole, Stato, Uguaglianza) in un post scriptum alla fine della premessa, che restituisce questa discrasia: “Per ragioni anagrafiche ho conosciuto un’epoca in cui è stato in vigore un compromesso democratico dentro il capitalismo occidentale. Le due generazioni successive non sanno più cosa sia: hanno avuto davanti a sé canoni e rappresentazioni diverse delle trame che si svolgono nella società, che la cultura corrente ha accreditato come un ordine naturale delle cose, che sembra non avere alternative. Vi è stata una rimozione totale di ciò che è stato, tanto da apparire oggi lontano, utopico, irrealizzabile.”
Ecco, rispetto a tutto questo la crisi è sembrata inizialmente rappresentare una cesura. Ma in effetti non lo è stata. Non che sia passata del tutto invano: vi è stata una certa rivalutazione del valore dell’intervento pubblico – anche se principalmente per salvare il sistema finanziario -, un ritorno della questione delle diseguaglianze, almeno nel dibattito intellettuale, il venir meno delle più grossolane illusioni sull’autoregolazione del mercato. Ma non molto più di questo. Se la questione centrale, al centro del già citato libro di Salvatore Biasco, è quella del rapporto tra capitalismo e democrazia, bisogna dire, dopo otto anni, che non si sono fatti sostanziali progressi verso un modello più equilibrato di compromesso tra i due. Rispetto al consensus neoliberista che si afferma tra anni Settanta e Ottanta e celebra i suoi trionfi negli anni Novanta della fine della storia di Fukuyama oggi non siamo in una posizione più avanzata. Perché questo non è avvenuto, pur in corrispondenza di una finestra di opportunità che sembrava aprire molti spazi?
Uno dei fattori centrali è stato proprio il deficit di cultura politica, fantasia e di volontà, da parte delle forze che avrebbero potuto e dovuto proporre un’alternativa. E questo su tutti e tre i piani accennati: per quanto riguarda la consapevolezza della classe dirigente, la percezione dei processi a livello del senso comune e le politiche applicate. Solo sul piano teorico vi è stato, solo in parte, un cambiamento.
Le forze di sinistra infatti hanno fallito finora e continuano a fallire nel proporre un’alternativa efficace, mentre un nuovo tipo di destra “liberal-protezionista” sembra effettivamente essere in grado di avanzare una propria agenda, rispondendo alle paure di lavoratori e ceti medi con un mix di critica alla globalizzazione, continuità di fatto con molte politiche neoliberiste e forti richiami identitari.
Alle forze progressiste non resta dunque altro che gridare all’arrivo dei nuovi barbari e farsi difensori dello status quo, prestandosi così bene all’accusa di essere i migliori difensori dell’establishment? O, viceversa, esse devono identificarsi con gli oppositori di quest’ultimo, facendo propria la bandiera di quel “populismo” che così spesso ha rimproverato agli avversari?
In realtà è probabile che la sopravvivenza di una prospettiva di sinistra, socialista o socialdemocratica, che dir si voglia, sia legata alla fiducia nell’esistenza di una via ulteriore rispetto a questi due estremi, che, ben lungi dall’essere una “terza via” come l’abbiamo conosciuta, sia piuttosto l’unica strada possibile per un mutamento sistemico. Una via che fornisca uno sbocco alla rabbia degli esclusi, dei nuovi poveri, dei giovani disoccupati e che miri a costruire un blocco che leghi questi ultimi a parti dei ceti medi in difficoltà e ad una porzione delle classi dirigenti disposta a condividere un progetto di riforma del capitalismo. Si tratta, cioè, di disinnescare la contrapposizione frontale tra un sistema concepito come immutabile e l’opposizione, spesso solo fittizia e retorica ad esso, per sviluppare un’energia politica da mettere al servizio di un progetto di cambiamento delle regole e dei meccanismi di funzionamento del “sistema”.
La difficoltà giace proprio qui. Se si vogliono prendere sul serio gli obiettivi della definizione di un nuovo compromesso tra capitalismo e democrazia, di una diversa regolazione della globalizzazione (con una soluzione virtuosa del Trilemma di Rodrik), di una forte riduzione delle diseguaglianze, di una democrazia più ampia, inclusiva e capace di incidere sui processi e di un dibattito pubblico più vivo, la soluzione dell’equazione appare estremamente complessa e richiede una risposta coordinata e articolata su molti piani e livelli.
In primo luogo va affrontato il tema delle classi dirigenti e del mutamento della composizione delle élite, tema a cui, non a caso, è dedicato il quarto numero di Pandora. Una critica del modus operandi, della cultura, delle modalità di selezione e dei rapporti interni alle élite neoliberiste è necessaria. Dopodiché, però, c’è una domanda che bisognerebbe farsi: quali élite sono necessarie per creare il cambiamento? Come potrebbero operare per avere al tempo stesso una sufficiente conoscenza della complessità per poter incidere sui processi globali e includere democraticamente parti sempre più grandi della popolazione? A quali livelli dovrebbero agire e come questi livelli potrebbero coordinarsi tra loro? Come si potrebbero costruire sistemi di selezione adeguati a questo processo? Quale cultura politica e identità dovrebbero condividere?
In secondo luogo, occorre combinare una risposta politica con una proposta sul piano dell’identità e del senso comune. L’emergere ovunque in Europa e nel mondo di retoriche identitarie segnala, oltre all’insicurezza economico-sociale, anche una domanda di senso a cui bisognerebbe dare una risposta alternativa. All’espulsione di enormi parti della popolazione dai meccanismi economici, sociali e politici occorre rispondere non con una contrapposizione binaria degli esclusi al resto della società, ma destrutturando questa opposizione e costruendo invece un nuovo blocco sociale, partendo da politiche di inclusione in grado di incidere nuovamente sui fattori strutturali che stanno alla base della situazione attuale: disuguaglianze, disoccupazione diffusa, crisi delle classi medie, democrazia asfittica, povertà, disinteresse, assenza di prospettive dei giovani.
Questo presuppone a sua volta una coerenza progettuale, ovvero una nuova cultura politica, e la forza per attuarla progressivamente, mutando il segno dell’attuale circolo vizioso (in cui le dinamiche economiche indeboliscono via via la forza dei soggetti politici) verso una dinamica virtuosa.
Agire contemporaneamente sia a livelli di governo diversi (locale, nazionale, sovranazionale) sia nella società è la condizione minima per un cambiamento reale. E un’azione coordinata richiede un’unità d’intenti che non può emergere tramite meccanismi spontanei ma soltanto attraverso una riflessione sui meccanismi di scambio tra elaborazione intellettuale e azione politica (ad esempio sul problema dei think tank e del loro rapporto con la democrazia) e della formazione delle élite politiche, nonché sui meccanismi di costruzione del senso comune.
Anche una riflessione sui partiti come snodo essenziale della democrazia (tema singolarmente assente dal dibattito sul referendum costituzionale) non può essere slegata da questa problematica: tanto il modello tradizionale di partecipazione quanto quello sperimentato più di recente appaiono inadeguati rispetto al compito. Occorre immaginare una forma di partito a più alta intensità di conoscenza in grado di creare élite diffuse, non tecnocratiche ma in grado di ricomporre e riorganizzare la società agendo nelle sue pieghe. Solo se ripensati in questo modo i partiti potranno adempiere al loro compito di organizzare la democrazia. Questa non è un’idea che derivi da un modello astratto, ma dall’analisi della situazione presente e dalla necessità di darvi una risposta politica.
Questo testo è tratto da una delle relazioni tenute all’inizio del seminario “Una nuova cultura politica? La sinistra in tempi interessanti. Generazioni a confronto” che si è tenuto venerdì 16 dicembre a Roma presso la Sala di Santa Maria in Aquiro del Senato.
Fonte: Pandorarivista.it
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.