di Marta Fana
Il verdetto della corte costituzionale sui referendum sociali promossi dalla Cgil ha giudicato ammissibili i quesiti riguardanti l’abrogazione dell’istituto dei voucher e l’introduzione della clausola di responsabilità negli appalti per le imprese. Ha invece bocciato il quesito sul ripristino dell’articolo 18. Tra i due quesiti ammessi, quello che ha più fatto discutere è sicuramente il primo: i voucher. L’accanimento contro l’ipotesi di abolizione dei voucher è stato clamoroso. Tuttavia, a un profluvio di interviste a sostegno dei buoni lavoro, agli scoop sull’utilizzo da parte della Cgil, fa da contraltare un mondo del lavoro sempre più povero e precario, delegittimato della sua funzione sociale e da questo bisogna ripartire quando si discute di voucher.
Occorre andare con ordine: capire da un lato la portata, sul sistema economico e delle relazioni industriali, dell’esplosione dei voucher dopo la loro totale liberalizzazione; dall’altro va fatto un ragionamento complessivo sui voucher per rivelare l’ideologia alla base della loro strenua difesa.
Spesso infatti, oltre alle argomentazioni deboli sul piano fattuale (ne parliamo più avanti), l’esistenza dei buoni lavoro viene assunta non solo come inevitabile di fronte a un’economia che conta tre milioni di disoccupati, ma allo stesso tempo come utile a garantire la flessibilità di cui hanno bisogno le imprese per svolgere il proprio compito di creazione di valore e ricchezza.
Progressiva e totale liberalizzazione
Secondo la normativa riportata dall’Inps, “è possibile utilizzare i buoni lavoro in tutti i settori di attività e per tutte le categorie di prestatori” (i lavoratori).
La lista dei soggetti che possono svolgere attività lavorative ed essere retribuiti attraverso il sistema dei voucher è pressoché onnicomprensiva: pensionati, studenti, cassintegrati, titolari di indennità di disoccupazione aspi, disoccupazione speciale per l’edilizia e i lavoratori in mobilità, inoccupati, titolari di indennità di disoccupazione mini-aspi e mini-aspi 2012, di disoccupazione speciale per agricoltura, lavoratori autonomi, lavoratori dipendenti pubblici e privati e lavoratori part-time. Tutti.
Ma, precisa l’Inps, non è possibile svolgere prestazioni di lavoro accessorio presso lo stesso datore di lavoro se con quest’ultimo si ha già un contratto di tipo subordinato. Inoltre per gli studenti si precisa che questi possono svolgere lavoro accessorio nei periodi di vacanza in cui sono compresi il sabato e le domeniche.
L’attuale normativa mostra i segni della progressiva e totale liberalizzazione dei voucher rispetto al tipo di regolamentazione iniziale il cui utilizzo era limitato ai pensionati e a chi percepiva un sostegno al reddito (i disoccupati, i cassintegrati eccetera) e allo stesso tempo escludeva la possibilità di ricorrere al lavoro accessorio alle attività imprenditoriali e alla pubblica amministrazione.
Oltre alla liberalizzazione degli ambiti di applicazione, l’ultima riforma del lavoro, il jobs act, ha infine esteso il limite di reddito che ciascun lavoratore può percepire in un anno attraverso i voucher, portandolo da cinquemila a settemila euro. Poiché ai committenti, cioè i datori di lavoro di qualunque natura, non si applica alcun limite né in termini monetari e neppure nel numero di lavoratori voucherizzati, lo strumento dei buoni lavoro è per definizione – oltre che di fatto – un sostituto di regolari rapporti di lavoro: per esempio, i contratti di somministrazione e i contratti subordinati a termine di brevissima durata, anche giornaliera, come sottolinea il rapporto Visitinps sul lavoro accessorio.
La punta del sommerso
L’occasionalità del lavoro, se per definizione rende precario il lavoratore già nelle sue forme più strutturate, una volta gestita tramite i voucher produce l’abbattimento totale dei diritti, monetari e non: compensi inferiori a parità di lavoro svolto, scarsissima contribuzione previdenziale e nessun accumulo di diritti quali la disoccupazione, la maternità, le ferie.
Il sistema dei buoni lavoro è allora non uno strumento di emersione del lavoro nero, ma uno strumento di abbattimento del costo del lavoro a totale beneficio delle imprese. Inoltre, che non si tratti di emersione risulta evidente dalle considerazioni della già citata ricerca Inps, secondo cui i buoni lavoro costituiscono la punta regolare di un iceberg che rimane appunto sommerso.
Il totem del lavoro irregolare è sventolato come uno spauracchio per giustificare la diminuzione dei diritti dei lavoratori. Un ragionamento simile si può applicare per esempio al caso Vicker, una start up che permette di offrire e trovare lavoro (occasionale) comodamente dal proprio smartphone, che agisce sulla disintermediazione dei rapporti di lavoro da parte dei centri per l’impiego, le agenzie interinali e da ultimo le tabaccherie per i voucher. Poiché a Vicker interessa solo la tracciabilità del pagamento, è il lavoratore che dovrà farsi carico di tutte le spese contributive. Il diritto alla tracciabilità viene anteposto al diritto ai contributi sociali e previdenziali.
Sebbene il lavoro irregolare costituisca un problema strutturale dell’economia italiana, al pari dell’evasione fiscale, sostenere che i voucher possano risolvere la questione non fa altro che rafforzare la tesi secondo cui per risolvere i problemi delle imprese italiane e del loro rapporto con lo stato bisogna agire sul lavoro, o meglio sulla cosiddetta “svalutazione interna”, appunto comprimendo i diritti e i salari. Infine, ma non meno importante, l’utilizzo di voucheristi rappresenta anche il tassello più avanzato della frantumazione del mondo del lavoro come soggetto sociale. Non a caso l’unità dei lavoratori e la loro sindacalizzazione (confederale o di base) è percepita come un ostacolo dalle imprese poste di fronte a rivendicazioni collettive e non più libere di sfruttare il ricatto individuale.
Un’ulteriore conferma che la battaglia contro il lavoro nero non ha granché a vedere con l’introduzione e successiva liberalizzazione dei voucher è data dal sempre più diffuso utilizzo dei buoni lavoro all’interno delle pubbliche amministrazioni. Sempre più enti locali bandiscono graduatorie per lavoratori da retribuire attraverso i voucher, che si tratti di lavori a bassa o alta qualifica poco importa.
Si può citare il caso delle lavoratrici all’ufficio della ragioneria del comune di Cavriago in provincia di Reggio Emilia, così come i mediatori linguistici del comune di Torino. I casi sono ormai migliaia, come riporta quotidianamente la stampa locale e testimonia ancora il rapporto Inps, secondo cui esistono più di centomila lavoratori tra enti pubblici e agricoltura retribuiti a voucher (ma i voucheristi in agricoltura sono solo una stretta minoranza).
La questione a ben vedere non è il lavoro nero, ma la possibilità anche qui di ridurre i costi di gestione per gli enti locali, scaricando il peso dei risparmi sui lavoratori. Servizi di pulizie, giardinaggio, assistenza sociale, accoglienza agli immigrati non sono evidentemente servizi pubblici occasionali, non in un mondo in cui il pubblico è funzionale al soddisfacimento dei bisogni dei propri cittadini e non alle regole di bilancio.
Massimo ribasso
Quello a cui si assiste è una forma di re-internalizzazione delle funzioni al massimo ribasso, dopo il periodo delle esternalizzazioni in cui il settore pubblico dava in gestione le sue funzioni a imprese o cooperative private. Tuttavia, il problema non è esclusivamente legato all’occasionalità delle prestazioni bensì al ruolo dello stato e quindi delle sue diramazioni locali quale garante dei diritti minimi anche in termini di condizioni di lavoro.
Se avviene nel pubblico, figurarsi nel privato: lì dove per definizione l’obiettivo non è quello di garantire diritti e servizi ma massimizzare i profitti, di breve termine. Rendere occasionale un lavoro che era fino a poco prima svolto in modo subordinato, seppure di breve periodo, è funzionale a questo obiettivo – ed è ancora più facile da ottenere potendo far leva su una riserva di tre milioni di disoccupati.
Sembra di esser tornati agli anni trenta quando “la necessaria redistribuzione del reddito tra i lavoratori, in un’economia segnata da un eccesso di offerta di manodopera, si realizza attraverso forme di ‘rotazione’ di più persone nel medesimo posto di lavoro”, come hanno scritto nel 1987 i due storici economici Francesco Piva e Gianni Toniolo in Sulla disoccupazione in Italia negli anni ’30. Il lavoratore diventa occasionale, ma il lavoro in sé continua a non esserlo. Laureati che redigono business plan, praticanti negli studi di avvocati, autotrasportatori: storie di ordinaria precarietà.
Inoltre, data la completa liberalizzazione dello strumento dei buoni lavoro unitamente alle nuove disposizioni sui licenziamenti, è possibile che un lavoratore assunto con contratto a tutele crescenti, se licenziato sia riassunto dalla stessa azienda o impresa a voucher per un paio di mesi, poi sostituito con un altro lavoratore a voucher e così via. Una pratica ammessa, anche se fortunatamente non ancora troppo diffusa.
A nulla serve provare a correggere tali storpiature con l’introduzione di un tetto massimo mensile che ciascun datore può utilizzare con il singolo lavoratore, come ha proposto su Repubblica Tito Boeri, presidente dell’Inps. Così facendo non viene in nessun modo aggredito il sistema precarizzante insito nel dispositivo dei buoni lavoro, anzi al contrario si supporta la rotazione di più lavoratori per un solo posto di lavoro.
Altri modi di utilizzo, stavolta impropri, riguardano lo svolgimento dei periodi di prova durante i quali i lavoratori invece di essere contrattualizzati, così come richiederebbe la legge, sono pagati a voucher. È l’Inps a sottolinearlo: una quota consistente, tra coloro che nello stesso anno hanno svolto sia lavoro dipendente che a voucher “è formata da quanti intrattengono, con la medesima impresa e nello stesso anno, rapporti sia di lavoro dipendente che di lavoro accessorio. Si tratta di una quota decisamente elevata. Nella maggior parte dei casi i rapporti di lavoro dipendente risultano attivati successivamente alla prestazione di lavoro accessorio. Pertanto si possono ipotizzare funzioni ‘introduttive’, tipo tirocinio, o, più probabilmente, una commistione”.
Si tratta di decine di migliaia di lavoratori. Così come nel caso, del tutto illecito, dell’utilizzo dei voucher per retribuire ore supplementari a lavoratori dipendenti presso la stessa azienda. Per dare una stima quantitativa, secondo l’Inps coloro che nel solo mese di settembre 2015 rientravano in questa fattispecie erano circa 25mila lavoratori.
A giustificazione di quest’uso (e abuso) sempre più evidente sono uscite nelle ultime settimane le stime del peso dei voucher sul costo del lavoro complessivo in Italia, che ammonterebbe solo a circa lo 0,23 per cento nel 2015. È un dato fuorviante per due ragioni. Primo: una valutazione basata sul costo del lavoro calcolato sui contributi previdenziali versati è per forza di cose molto inferiore per i voucher, dal momento che per ogni buono orario da dieci euro, il datore di lavoro versa solo il 13 per cento di contributi e non il 26 per cento come mediamente avviene per i contratti subordinati.
Di nuovo si rafforza la tesi per cui i voucher costano meno ai datori di lavoro e per questo sono utilizzati.
Secondo, per valutare l’incidenza dei voucher sull’economia italiana bisogna studiare quanto questi valgono in termini di posti di lavoro e ore lavorate rispetto all’occupazione aggiuntiva creata in un determinato anno. Per esempio, sappiamo che tra il terzo trimestre 2016 e il terzo trimestre del 2015, i voucher venduti sono stati 143.553.788 corrispondenti a 76.399 lavoratori a tempo pieno. Considerando che i nuovi occupati nello stesso periodo sono 239mila, l’incidenza del lavoro voucherizzato rappresenta il 31 per cento della nuova occupazione. Un dato molto simile è riportato da Carlo Di Foggia su Il Fatto Quotidiano del 10 gennaio dove si legge che il 28 per cento circa dell’incremento delle ore lavorate nel 2015 rispetto al 2014 è dovuto ai voucher. Dal punto di vista statistico, la quantificazione del fenomeno è importante, tuttavia se ci si sposta sul piano sociale e politico lo sfruttamento anche solo di un lavoratore diventa un problema.
Nonostante le evidenze, i sostenitori del lavoro accessorio continuano a rifiutare ogni ipotesi di abolizione dello strumento dei voucher sostenendo che alla fine in gran parte sono utilizzati da studenti e pensionati. Come se fosse naturale che uno studente debba lavorare per mantenersi gli studi facendosi sfruttare, perché a ben vedere lavorare per quelle modiche cifre di sicuro non è una scelta, come già visto per i casi di cottimo di Foodora e simili.
Oltre il danno per una società in cui il diritto allo studio appare come un’utopia per coloro che non hanno famiglie che possano sostituire il welfare, c’è anche la beffa di dover soccombere allo sfruttamento sul lavoro per poter finanziare i propri studi.
Ma i giovani voucherizzati non sono solo gli studenti, sono anche coloro che provano a entrare nel mercato del lavoro una volta terminati gli studi. La quota di giovani pagati a voucher sul totale dei lavoratori occasionali è esplosa tra il 2008 e il 2015, passando dal 12,9 per cento al 43,1 per cento. Un incubo che si avvera per un paese dove la disoccupazione giovanile è al 40 per cento, dove la povertà e la vulnerabilità delle fasce più giovani della popolazione non fanno che aumentare, dove le prospettive sul futuro, non a caso, peggiorano di anno in anno, nonostante la laurea. Sono gli stessi che non avranno diritto alla pensione perché a qualcuno conveniva non pagargli contributi previdenziali dignitosi.
Per concludere, i voucher rappresentano una bomba a orologeria per il sistema previdenziale e la tenuta sociale del mondo del lavoro. Dopo anni di denunce anche il governo pare essersene accorto e infatti, una volta bocciato il quesito sull’articolo 18, proverà in tutti i modi a disinnescare il potenziale tumulto sociale a favore dell’abolizione dei voucher. Perché a che se ne dica, il referendum sull’abolizione dei voucher e sugli appalti è l’occasione per ricompattare socialmente e politicamente quella fetta di società nata senza o spogliata dei suoi diritti sociali. Quella classe, si sarebbe detto un tempo, che ha tutta la necessità di riconoscersi e prendere coscienza di sé. In questo senso, i referendum non sono che l’inizio (potenzialmente) di un processo politico molto più profondo.
Fonte: Internazionale
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.