di Stefano Simoncini
Cento milioni di euro. È questa la cifra monstre del danno erariale che incombe su 5 dirigenti capitolini a cui è toccata la cattiva sorte di amministrare negli ultimi 10 anni una porzione significativa dell’immenso patrimonio immobiliare del Comune di Roma. Partirà infatti a metà gennaio, a seguito dello scandalo «Affittopoli», una prima batteria di processi (sono 70 finora le citazioni in giudizio) che la Corte dei Conti ha istruito sulle irregolarità nella gestione dei beni comunali in concessione, chiamando gli amministratori a rispondere personalmente del presunto danno erariale.
Parliamo dei circa 989 spazi che sono classificati dall’amministrazione come «indisponibili» in quanto destinati a funzioni istituzionali, sociali e culturali tramite concessioni a enti e associazioni non profit con un canone ribassato dell’80% rispetto al valore di mercato, o in comodato gratuito. E si distinguono per questo dai beni «disponibili», che sono invece destinati alla messa a reddito tramite locazioni ordinarie e dismissioni. Per decenni questi spazi, come il resto del Patrimonio, sono stati gestiti dal Comune in modo opaco e approssimativo, e tuttavia soltanto oggi, tanto tardivamente quanto inflessibilmente, la Corte dei Conti, avendo rilevato a suo dire un’«indistinta congerie di situazioni di assegnazione irregolari», tra occupazioni senza titolo, morosità, canoni mai aggiornati, contratti scaduti o mai perfezionati, ha deciso di calcolare, fascicolo per fascicolo, l’intero danno erariale che si presume provocato dalla mala gestione.
Se guardiamo a questa situazione attraverso la lente deformante della sterminata crisi romana, si potrebbe ritenere che un organo di controllo centrale stia legittimamente cercando di ricondurre nella legalità il capitale patrimoniale di un ente locale da tempo sprofondato nell’inefficienza e nella corruzione. In realtà, analizzando più a fondo la questione, i conti della Corte non tornano per nulla. Innanzitutto perché le istruttorie – ne sono state avviate 230 in due anni – prendono di mira solo gli amministrativi, tutte donne (a cui per inciso si mortifica il diritto alla difesa in ragione del ritmo forsennato delle procedure attivate). Facendo perciò salvi sia i decisori politici, tutti uomini, a cui le dirigenti a ragione o a torto rispondevano, sia la Romeo Gestioni Spa, che dal 1997 al 2015 ha condotto in outsourcing la gestione amministrativa e tecnica del Patrimonio comunale.
Una scelta singolare che deresponsabilizza la testa e la mano degli eventuali abusi, andando a colpire solo lo strumento, l’amministrazione. E risulta ancora più strana se si punta la lente sul rapporto di Romeo con la politica. L’imprenditore Alfredo Romeo, tra i maggiori finanziatori di Renzi nel 2013, è sotto inchiesta per corruzione relativa a un maxiappalto Consip, la centrale acquisti del Mef, che vede ora coinvolto un renziano doc come Luca Lotti, sospettato insieme ad alcune delle più alte cariche dei Carabinieri di essere tra i responsabili della «fuga di notizie» volta a neutralizzare le intercettazioni ambientali predisposte dalla procura di Napoli negli uffici del Consip.
Che siano vere o no le accuse, sorge il legittimo dubbio che nella defenestrazione renziana di Marino abbia giocato un ruolo di qualche rilievo l’iniziativa del vicesindaco Luigi Nieri volta a estromettere Romeo dalla gestione del Patrimonio mediante l’indizione di un nuovo appalto, a reinternalizzare il sistema informativo e a impedire che si affidasse alla sua impresa l’esecuzione delle alienazioni previste, nonostante la strenua resistenza della maggioranza Pd in consiglio.
Ma i conti non tornano soprattutto perché la Corte, senza distinguere tra buoni e cattivi “inquilini”, e senza entrare nel merito dell’interesse pubblico delle rispettive attività, sta valutando le concessioni con un approccio rigidamente giuridico-formale. Infatti il procuratore Guido Patti, che conduce tutte le istruttorie, sta facendo leva su un mero vizio procedurale per considerare nulle ab origine gran parte delle concessioni. Il problema è legato alla complessità degli iter burocratici, che a partire da una preassegnazione decisa in genere dall’assessore, prevede un giro complesso di pareri degli uffici e in ultimo l’approvazione del consiglio.
Ora, il vizio di quasi tutte le concessioni è dovuto al fatto che quasi nessuna è stata perfezionata nel termine dei 120 giorni previsti da Regolamento comunale a partire dall’ordinanza di preassegnazione, sia perché gli uffici non erano in grado di controllare i tempi tecnici di un iter così articolato, sia perché la politica in alcuni casi poteva avere interesse a rallentarlo per non dare pubblicità alle proprie relazioni clientelari. La magistratura contabile potrebbe valutare l’eventuale dolo dell’irregolarità attraverso la verifica della sostanziale legittimità della concessione dal punto di vista dell’interesse pubblico, ma preferisce considerare nulli tutti i contratti, e conseguentemente tutti gli sconti accordati sul valore di mercato. In questo modo, oltre a rendere morosi e occupanti abusivi anche coloro che hanno sempre pagato regolarmente e svolgono attività validissime, la Corte intima ai dirigenti di restituire di tasca propria gli sconti illegittimi, calcolati sul valore di mercato e per l’intero periodo di utilizzo degli spazi. E poiché si reputano responsabili anche i dirigenti che, secondo la magistratura contabile, avrebbero dovuto adoperarsi per la riacquisizione degli spazi, i dirigenti attuali sono costretti a difendersi firmando a occhi chiusi diffide al rilascio e determinazioni di sgombero nei confronti di tutti i concessionari attenzionati dalla Corte.
Appare così evidente che questo impianto accusatorio basato su un cavillo burocratico si sta trasformando in un’arma puntata alla tempia degli uffici per fare tabula rasa di tutte le concessioni, quasi che si volesse cancellare la fonte stessa del presunto danno, identificata nel patrimonio indisponibile.
Tra i principali argomenti della difesa di fronte al giudice contabile (presso il quale si è svolto finora un solo giudizio) vi è la constatazione che «una volta individuato un determinato bene immobile come destinato a sostegno delle attività delle associazioni del terzo settore, a meno che non sopravvenga la necessità per l’Amministrazione di rientrarne in possesso per finalità pubbliche, il bene destinato alle associazioni anche se, per motivi diversi, dovesse restare libero da persone e cose non perciò potrebbe essere automaticamente messo sul mercato per conseguire il maggior canone possibile». Una argomentazione che evidentemente smonta la scelta di parametrare il danno erariale non sulla effettiva produzione di valore sociale ma sulla mancata messa a reddito, incompatibile con lo statuto “indisponibile” dei beni in questione.
Un criterio che, oltre a innescare l’arma del dispositivo accusatorio responsabile di fare tabula rasa delle concessioni, afferma la priorità della redditività del Patrimonio sulla sua destinazione sociale, appropriandosi di una prerogativa esclusiva dell’ente locale. Poiché l’unica sentenza passata finora in giudicato ha sostanzialmente avallato l’impianto di Patti, senza mai citare la famigerata delibera 140 di Marino, che molti reputano a torto la causa scatenante della guerra agli spazi sociali, mentre non è altro che un maldestro e superfluo tentativo di arginare l’azione già avviata della Corte. Poiché ordinanze e sentenze del Tar stanno rigettando i ricorsi alle diffide del Comune, e da luglio scorso sono già stati eseguiti due sgomberi (i club musicali Init e Brancaleone), anche se l’impulso finora è partito dalla magistratura ordinaria e non direttamente dal Campidoglio, la conseguenza più probabile è che, insieme ai furbetti di «Affittopoli», sarà spazzato via un vasto e sano tessuto di produzione culturale e cooperazione sociale della città, tra teatri, istituzioni musicali, centri sociali e culturali, asili nido, centri di assistenza psichiatrica, sportelli antiviolenza per le donne, scuole e palestre popolari ecc.
Una legalizzazione a colpi di scure che, in una città già messa a dura prova, rischia di comprometterne ulteriormente la coesione sociale, palesandosi come un rimedio di gran lunga peggiore del male che si vorrebbe curare.
(1° puntata/continua)
Fonte: il manifesto
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