di Filippo Sbrana
Quando si guarda al Mezzogiorno nella prospettiva del dualismo si corrono dei pericoli. In una recente pubblicazione, Salvatore Lupo ha sottolineato il rischio che il permanere del divario finisca per oscurare i risultati positivi conseguiti. (...) In realtà il quadro è molto meno statico di come potrebbe apparire. Il Sud non è cresciuto poco in termini assoluti: nei primi 150 anni di storia unitaria l’incremento del Pil pro capite è stato notevole, stimato fra 9 e 10 volte. Un dato non trascurabile: il Regno Unito, ad esempio, è cresciuto 7 volte.
Per il Mezzogiorno la svolta avviene in età repubblicana. Con l’avvio dell’intervento straordinario si registrano tassi di crescita simili al resto del paese e fra i migliori al mondo nelle aree sottosviluppate, tali da conseguire una significativa modernizzazione. Come ha osservato Paola Casavola, per quanto riguarda gli "indici di salute fondamentali e quelli su cui si misura il grado di sviluppo sociale, il Mezzogiorno si colloca pienamente su quanto si registra nelle aree più progredite del mondo" . (...)
Non di rado la storia del Mezzogiorno viene letta in chiave soprattutto nazionale, non considerando a sufficienza le connessioni con l’estero. In realtà, per quanto riguarda Nord e Sud in età repubblicana, sono diverse e significative le influenze transnazionali, per utilizzare un’espressione propria della global history . Lo si coglie bene – entrando nello specifico dei diversi saggi – nel lavoro di Francesco Dandolo, che offre una interessante ricostruzione dei dieci anni che vanno dal 1948 al 1957. L’autore delinea un Mezzogiorno “immerso” in un contesto transnazionale, dai modelli di politica economica agli investimenti esteri, dagli scambi con i teorici dello sviluppo fino alle relazioni commerciali. È molto evidente la presenza degli Stati Uniti, rafforzata dall’azione della Banca Mondiale. Ne emerge fra l’altro un convinto apprezzamento per l’opera della Cassa del Mezzogiorno da parte dei tecnici statunitensi. La decisione di puntare sull’intervento pubblico trovava conferme nelle scelte operate in ambito internazionale, dagli Usa alla Gran Bretagna alla Francia. È significativo che in Italia venissero prese in considerazione anche le esperienze di Svezia, Norvegia, Olanda e altri, a conferma della volontà di tenere conto di quanto avveniva all’estero. Alla metà degli anni Cinquanta l’Oece non si limitò ad esprimere apprezzamento per la politica economica italiana, ma invitò tutti i paesi europei a sostenere Roma a superare le difficoltà strutturali della sua economia, alle quali non poteva far fronte da sola. È un fatto importante, a partire dal quale si può sintetizzare la parabola dell’attenzione nei confronti del Mezzogiorno in età repubblicana: forte anche all’estero in questa fase, di carattere soprattutto nazionale in seguito, degradato a problema locale con l’avvento della questione settentrionale.
Nel saggio viene richiamato il noto dissidio fra la componente industrialista e quella che riteneva più urgente realizzare le infrastrutture volte a modernizzare l’agricoltura. L’autore ricorda le posizioni di quanti – da Francesco Compagna alla Scuola di Portici – ritenevano imprescindibile la trasformazione del settore primario, che rappresentava gran parte del prodotto delle regioni meridionali e condizionava ogni possibilità di sviluppo dell’area, risultando un passaggio ineludibile. Ritenevano difficile mettere in moto subito il processo di industrializzazione nel Sud, mentre gli investimenti a favore dell’agricoltura (pari quasi all’80% del totale negli anni Cinquanta) stavano avviando il processo di convergenza, suscitando un convinto apprezzamento di numerosi osservatori internazionali e la possibilità di beneficiare di investimenti di capitale estero. La ricostruzione porta l’autore a proporre una chiave di lettura indubbiamente stimolante sul mancato superamento del dualismo, interrogativo cruciale per chi si occupa di questi temi. Secondo Dandolo la rapida chiusura del cosiddetto “primo tempo”, ossia la decisione di puntare soprattutto sull’industria per la modernizzazione del Mezzogiorno, fu assunta prematuramente e si rivelò nel lungo periodo una scelta sbagliata. Disincentivò «un più complessivo e autoctono processo di sviluppo della società meridionale», lasciando spazio soprattutto ad un modello calato dall’alto, rigido e alla fine poco efficace nel favorire lo sviluppo locale al di là degli interventi esterni. Senza dubbio occorreva far crescere il settore industriale – obiettivo che peraltro venne giustamente perseguito in un disegno di sviluppo dell’intera economia italiana – ma questo non sarebbe dovuto andare a detrimento dell’agricoltura, settore cruciale nella società meridionale.
La prospettiva internazionale caratterizza anche il saggio di Marco Zaganella, che analizza le connessioni fra i divari di sviluppo e la nascita del Mercato Comune. Durante l’avvio della costruzione europea l’Italia focalizzò buona parte del suo impegno sul Mezzogiorno, a conferma della sua indiscutibile centralità durante la Prima Repubblica. C’erano significative opportunità, per via dell’incentivo allo sviluppo suscitato dall’integrazione dei mercati e delle risorse che l’Europa avrebbe destinato alle aree svantaggiate, ma non mancavano i rischi. Si temeva che l’abbattimento delle barriere doganali e la creazione di un vasto mercato potesse accrescere il ritardo delle aree arretrate, accentuando i dislivelli di sviluppo. C’era una seconda preoccupazione, centrale nella fase propedeutica alla nascita del Mec: occorreva evitare che le politiche di intervento pubblico a favore del Mezzogiorno fossero ritenute incompatibili con le regole della nuova area di libero scambio. Non per caso i primi tre commissari al Mercato interno furono tutti italiani. D’altronde, si trattava per Roma di una partita assai significativa, intessuta di risvolti politici ed economici. Nel complesso dei sei paesi fondatori dell’Europa, il Mezzogiorno era l’unica vasta zona di sottosviluppo, ragione per cui parlare di aree arretrate – in un contesto segnato da un clima iniziale di solidarietà – significava riferirsi in primo luogo ad un problema italiano.
Zaganella si sofferma sulla grande importanza data dai governi di Roma alla Banca europea per gli investimenti (Bei), nella convinzione che potesse rappresentare uno snodo cruciale per le aree meno sviluppate e contribuire ad un efficace processo di armonizzazione fra le diverse regioni dell’Europa. La sua funzione appariva importante anche perché il paese aveva bisogno di investimenti in misura superiore alla propria capacità di risparmio. L’Italia riuscì a designare i due primi presidenti, negli anni compresi fra 1958 e 1970. Si trattava di Pietro Campilli, figura di primo piano del meridionalismo negli anni Cinquanta, e soprattutto di Paride Formentini, il cui mandato superò la durata di 10 anni. La Bei diede un sostegno costante alle attività del Mezzogiorno. Nei primi 10 anni di attività indirizzò verso la penisola ben 98 progetti su 137 complessivi, consentendo di sopperire almeno in parte alla carenza di investimenti privati e ad alcune difficoltà congiunturali del mercato finanziario italiano. Questo rende evidente che la comprensione della storia del Mezzogiorno ha bisogno di superare una lettura troppo interna, prendendo in considerazione i contesti e le influenze esterne, per comprendere come e quanto la storia del Sud sia stata parte di processi globali.
Oltre la metà dei prestiti concessi dalla Bei ai paesi membri andarono all’Italia meridionale. L’autore sottolinea giustamente che a beneficiare di questi capitali furono anche molte aziende del Nord – elemento che si era già ravvisato in occasione dei prestiti della Birs negli anni Cinquanta – confermando la complementarietà fra le aree del paese. Ma tali risultati rappresentavano solo una voce, seppur rilevante, nel complesso delle relazioni fra Italia e resto del continente. La strategia italiana, infatti, si rivelò fragile su altri fronti. Com’è noto, una parte significativa delle risorse economiche della Comunità seguirono percorsi diversi, a partire dalla Politica agricola comune, finendo per svantaggiare l’Italia e il suo Mezzogiorno. Roma rimase penalizzata dall’Europa continentale, che attirò buona parte dei fondi. Anche per questo in seguito si sarebbe impegnata per favorire l’allargamento all’area mediterranea, con l’ingresso di Grecia, Spagna e Portogallo.
Il terzo saggio, redatto da chi scrive, analizza il periodo che va dall’inizio degli anni Settanta alla metà degli anni Novanta: il focus si sposta dalla stagione della convergenza a quella dell’allontanamento, economico e politico. Viene ricostruito il sostegno dato da sindacati e lavoratori alla politica di intervento pubblico nel Mezzogiorno, individuando in tale supporto una premessa fondamentale per l’azione dello Stato. Dopo il cosiddetto “autunno caldo” del 1969 i sindacati avevano conquistato una grande influenza nella società italiana. Puntarono allora ad un disegno unitario sul paese, che identificava nello sviluppo del Sud un elemento cruciale e impegnava a suo sostegno tutti i lavoratori, con un’attenzione specifica a quelli del Nord Italia. La mobilitazione fu notevole, ma meno efficace risultò la capacità di formulare proposte concrete. La crisi economica seguita allo shock petrolifero interruppe il lungo ciclo espansivo che durava dalla Ricostruzione. Le aziende del Nord si trovarono ad affrontare difficoltà non irrilevanti, di fronte alle quali i sindacati continuarono a proporre un percorso unitario con il Mezzogiorno, ma trovarono minore consenso fra i lavoratori.
(...) Le profonde trasformazioni dell’Italia negli anni Ottanta, favorite da elementi di carattere sia nazionale sia internazionale, contribuirono anche a mutare l’atteggiamento verso il Mezzogiorno. È la stagione in cui s’indebolisce il movimento operaio, che nei decenni precedenti aveva avuto un peso rilevantissimo, orientando tanti percorsi individuali in una dimensione collettiva coesa e organica, dotata di un'indiscutibile forza. La sua crisi aprì la strada a comportamenti eterogenei e spesso contraddittori con le tradizioni della sinistra. Non solo fu rifiutata la proposta sindacale di unità d’azione con i lavoratori meridionali, ma in tanti iscritti e dirigenti sindacali si manifestarono segnali di esplicita contrapposizione verso il Mezzogiorno.
La documentazione archivistica di Cgil, Cisl e Uil permette di collocare tali cambiamenti nella prima metà degli anni Ottanta. È un elemento significativo, perché dimostra che il leghismo – inteso in senso ampio, come espressione di un localismo autoreferenziale e disinteressato a quello che accade fuori dal proprio territorio – si era diffuso già prima del successo elettorale della Lega Lombarda. Va colto poi un altro elemento, di carattere politico: la percezione dei mutamenti non fu uguale nei sindacati e nei partiti. Durante gli anni Ottanta, infatti, il delinearsi di una questione settentrionale incontrò scarsa attenzione nella Dc e nel Pci, se non a livello locale. Il sistema politico non riuscì a offrire risposte convincenti ai bisogni né dei soggetti emergenti né di quelli in crisi, confermando l’atteggiamento autoreferenziale che lo caratterizzava dopo la stagione della solidarietà nazionale . I sindacati, al contrario, avvertirono molto presto il diffondersi di sentimenti di contrapposizione fra Nord e Sud. Nel 1984 (anno in cui fu soppressa la Cassa del Mezzogiorno) Luciano Lama aveva chiaro quanto stava accadendo fra i propri iscritti e ne parlò lungamente durante una riunione di vertice della Cgil. Tale consapevolezza, tuttavia, non bastò a impedire la contrapposizione nei confronti del Mezzogiorno, né a formulare proposte innovative per il suo sviluppo. Le nuove domande del Nord non ricevettero risposte adeguate dai sindacati né dai partiti tradizionali e si indirizzarono verso la proposta politica del movimento leghista.
(...) Oggi si fa fatica ad avviare una seria riflessione sul dualismo, i punti di debolezza e di forza, le opportunità e i problemi. Quasi ci si fosse rassegnati all’ineluttabilità di tale situazione. Si sconta la dimenticanza del passato, che ha inciso anche sulla cultura del nostro paese. Come se dopo aver discusso di “questione meridionale” e “questione settentrionale”, l’argomento si fosse esaurito. In realtà c’è una nuova “questione nazionale”, quella di un dualismo che chiede di essere affrontato con urgenza. Se così non accade, le conseguenze sono pesanti per l’intero paese. Come ha osservato recentemente Adriano Giannola, non sembra casuale che dopo la cancellazione dell’intervento straordinario nel 1992 l’Italia stia vivendo una stagione di grave difficoltà per la propria economia, con un forte arretramento di tutte le regione meridionali e serie difficoltà anche nelle altre.
(...) I dati dell’ultimo Rapporto Svimez – che ogni anno richiama puntualmente l’attenzione sul dualismo – sono impressionanti. Dal 2000 al 2013 il Sud è cresciuto del 13%; la metà della Grecia, che nello stesso periodo registrato un incremento del 24%. Nel 2014 il Pil del Mezzogiorno è risultato negativo per il settimo anno consecutivo (-1,3%). Dall’inizio della crisi (ossia dal 2008) c’è stato un calo nell’occupazione pari al 9%, a fronte del 1,4% del Centro-Nord, oltre sei volte in più. Delle 811mila persone che in Italia hanno perso il posto di lavoro nel periodo in questione, ben 576mila sono residenti nel Mezzogiorno. Sempre nel 2014 l’occupazione al Sud è scesa sotto la soglia dei 6 milioni e si è attestata a quota 5,8 milioni: è il livello più basso dal 1977, anno da cui partono le serie storiche ricostruite dall’Istat. Fra i giovani con età compresa fra 15 e 24 anni i disoccupati sono il 56% (contro il 35% medio del Centro-Nord). I cosiddetti Neet hanno raggiunto nel paese i 3 milioni 512 mila: di questi quasi 2 milioni sono meridionali. Il divario si manifesta con forza anche in altri ambiti, come quello sanitario. Per fare un solo esempio, i cittadini di Campania e Sicilia hanno un’aspettativa di vita inferiore di quattro anni rispetto a chi vive in Trentino o nelle Marche.
(...) Un paese è una comunità di destino e in un mondo che sempre più si globalizza è illusorio farsi forti solo della propria realtà locale. C’è chi ipotizza addirittura che se il Mezzogiorno non trova la via dello sviluppo possa essere il Nord ad avvicinarsi al Sud, colmando il divario al ribasso . È una prospettiva allarmante. Ma non è l’unico futuro possibile, purché si intervenga a tanti livelli. Non siamo all’anno zero ed è un bene. In tutti i campi, a partire da quello economico, possiamo e dobbiamo tenere conto sia degli errori fatti nel passato sia dei successi conseguiti. La storia aiuta a cogliere entrambi. Ma bisogna agire e farlo presto. Il Mezzogiorno deve tornare ad essere una sfida cruciale per l’Italia intera.
Abstracts
Dalle lotte unitarie al leghismo: sindacati e lavoratori di fronte al dualismo Nord-Sud (Filippo Sbrana)
Il saggio ricostruisce il calo d’interesse verso lo sviluppo del Mezzogiorno, che perde rilevanza nel dibattito pubblico italiano fino ad essere sostituito nei primi anni Novanta dalla cosiddetta “questione settentrionale”. È un tema importante, perché il dualismo Nord-Sud è tema centrale per il paese sin dall’unificazione. Viene qui analizzato attraverso un punto di vista finora poco considerato dalla storiografia sull’argomento, quello dei sindacati e dei loro iscritti, utilizzando documenti d’archivio in larga parte inediti e fonti a stampa coeve. All’inizio degli anni Settanta Cgil, Cisl e Uil erano particolarmente forti e mobilitarono i lavoratori dell’intero paese affinché fosse superato il dualismo Nord-Sud. Ma la grave crisi economica seguita allo shock petrolifero indebolì il sostegno del Nord a questo disegno, insieme ad alcuni limiti dell’azione sindacale. Negli anni Ottanta, mentre l’Italia era segnata da profonde trasformazioni collegate anche a processi sovranazionali, l’interesse dei lavoratori settentrionali per il Sud diminuì ancora, fino a trasformarsi in contrapposizione. Molti iscritti ai sindacati sostennero la Liga veneta e la Lega lombarda, che rilanciarono la contrapposizione fra settentrionali e meridionali, spinsero per la cancellazione dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno e contribuirono al tramonto della Prima Repubblica, stagione che aveva identificato nella questione meridionale una sfida fondamentale.
La Bei “italiana” e lo sviluppo del Mezzogiorno (1958-1970) (Marco Zaganella)
L’avvio del processo d’integrazione europea rappresentò per il meridionalismo italiano una duplice minaccia e un’opportunità. Una prima minaccia era costituita dall’obiettivo di eliminare le barriere doganali e creare un grande mercato comune, che riportava alla memoria gli esiti dell’unificazione economica dell’Italia, sfociata nell’accentuazione del dualismo originario. Una seconda minaccia era rivolta alla politica d’intervento straordinario nel Mezzogiorno avviata nel 1950, la cui compatibilità con il Mec non era così scontata in origine. L’opportunità era invece rappresentata dall’ulteriore incentivo a modernizzare il Mezzogiorno, chiamato a fronteggiarsi con le aree più competitive dell’Europa continentale.
Per rispondere a queste speranze e a questi timori, la delegazione italiana incaricata di negoziare il Trattato di Roma propose la costituzione di uno strumento in grado di convogliare risorse aggiuntive per lo sviluppo del Sud Italia. Le origini della Bei risiedono in questo intento. L’Italia prestò grandi attenzioni a questa istituzione tra il 1958 e il 1970, quando fu presieduta da Pietro Campilli e da Paride Formentini.
Divari da colmare. La politica per il Mezzogiorno e la ricostruzione europea e mondiale nell’orizzonte culturale di Informazioni Svimez (1948-1957) (Francesco Dandolo)
L’autore analizza le prospettive del Mezzogiorno d’Italia nel decennio successivo al secondo dopoguerra. Nell’ambito della cooperazione economica internazionale, l’evoluzione del Mezzogiorno s’inserì nel dibattito sulle aree sottosviluppate del mondo. La Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) svolse un ruolo decisivo nel dare nuovo impulso alla questione meridionale: da qui nacque la Cassa per il Mezzogiorno. L’attività della Cassa fu volta a risolvere il dualismo che caratterizzava l’Italia con l’aumento del lavoro produttivo nel Sud. L’organo di stampa Informazioni Svimez, esaminato in modo sistematico dall’autore, consente di capire le dimensioni di questo dualismo, l’attività della Cassa al fine di incrementare il lavoro nel Mezzogiorno da un canto, e l’interesse delle agenzie della cooperazione economica internazionale dall’altro. Su questo versante fu consistente la politica di aiuti degli Usa e della Banca Mondiale a sostegno dell’Italia. Vi concorse, seppure in modo meno rilevante, anche il processo d’integrazione europea con la creazione della Banca europea degli investimenti, che assicurò nuove risorse allo sviluppo delle regioni meridionali, nell’ottica di una più ampia politica mediterranea.
Sul sito dell'editore Franco Angeli può essere acquistato il numero oppure i singoli saggi.
La rivista di storia Mondo contemporaneo dedica gran parte del n. 2-2016 al Mezzogiorno, tema per molti anni centrale nel dibattito politico ed economico e poi quasi completamente abbandonato. Il testo pubblicato rappresenta ampi stralci dell'Introduzione di Filippo Sbrana e, a seguire, gli abstract dei tre saggi sull'argomento.
Fonte: Eguaglianza e Libertà
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