di Mario Sai
Nel confuso vociare a difesa dei voucher si è inserita anche la Confindustria per bocca di uno dei suoi vice-presidenti, quel Maurizio Stirpe, che voleva cacciare dalla associazione le imprese che avessero firmato accordi a tutela dei licenziamenti derogando dal Jobs Act. L’ idea di porre un tetto all’utilizzo dei voucher, proporzionale al numero dei dipendenti a tempo pieno, non è un limite, ma è la conferma che essi non sono, a seconda dei punti di vista, uno strumento di bonifica del lavoro nero od una anomalia del mercato del lavoro, ma sono parte ordinaria del sistema di produzione, che ha una sua regola essenziale nel just in time: avere ciò che serve a disposizione solo quando serve, a cominciare dal lavoro.
Alla azienda fordista, «grassa» di magazzini, lavoratori e prodotti finiti è succeduta quella «magra» toyotista, che, articolando e decentrando la struttura produttiva, non solo ha allungato la catena della fornitura dove sono diffusi gli appalti, ma ha creato una nuova gerarchia nelle forme di impiego.
Alla azienda fordista, «grassa» di magazzini, lavoratori e prodotti finiti è succeduta quella «magra» toyotista, che, articolando e decentrando la struttura produttiva, non solo ha allungato la catena della fornitura dove sono diffusi gli appalti, ma ha creato una nuova gerarchia nelle forme di impiego.
Nelle aziende giapponesi , già negli anni novanta, i lavoratori erano divisi in cinque gironi: i dipendenti a tempo indeterminato con buoni salari ed esteso welfare aziendale; gli occupati con contratto a tempo determinato rinnovabile ogni sei mesi; quelli assunti in occasione di picchi di produzione e per stagionalità; i part-time, soprattutto donne; e infine i lavoratori occasionali , in genere studenti, senza diritti. Nel 2016 in Giappone lavoravano in modo regolare il 53% degli occupati nelle grandi imprese, ma solo il 37,3% in quelle sotto i 100 dipendenti.
È un processo globale, quanto globale è il toyotismo nelle sue diverse versioni, lean production o world class manufacturing che siano. Alla conferenza mondiale del settore auto del novembre scorso i sindacati hanno denunciato la forte crescita del lavoro precario, a cominciare dall’Europa. Secondo la CGT ci sono in Francia fabbriche con l’80% di lavoratori a termine o interinali; alla Renault sono novemila. In Germania un occupato su quattro lavora in modo totalmente flessibile con i mini-job ( al massimo 50 ore e 450 euro al mese). Sono quasi un milione e quattrocentomila nella manifattura e nei servizi alle imprese.
Il Jobs Act nasce dentro questa trasformazione epocale. L’abolizione dell’articolo 18 è la condizione per modificare in continuazione il labile confine tra lavoro necessario e lavoro precario; la cancellazione dal codice civile della «equivalenza professionale» permette di riorganizzare gli organici , peggiorando mansioni e stipendi; la solidarietà responsabile negli appalti non deve fare da intralcio al decentramento del processo produttivo.
Non c’è da stupirsi se si compra lavoro con i voucher prevalentemente nelle regioni del Paese più industrializzate, la Lombardia , il Veneto, l’Emilia. Nel 2016 quelli venduti a Milano sono stati 8 milioni coinvolgendo 130 mila persone, un decimo della quota nazionale. In grande maggioranza sono stati utilizzati nell’edilizia e nella manifattura; poi nel commercio e nei servivi; sotto il15% nei settori per cui erano nati: lavori domestici, di pulizia, di babysitter e giardinaggio. Si usano in generale poco in agricoltura, dove continua a essere diffuso il caporalato anche nel nord, mentre cresce l’utilizzo da parte dei Comuni.
La battaglia referendaria si presenta a un tempo necessaria (e per questo si farà di tutto per vanificarla), ma assai difficile. Anche le forze interessate, per ragioni diverse, ai referendum, dalla minoranza Pd alla sparsa sinistra al M5S hanno cercato in questi anni fuori dai lavoratori sindacalizzati i propri referenti, finendo con il dare centralità a una idea di superamento della precarietà attraverso il reddito di cittadinanza e il farsi imprenditori di sé stessi. Per la difesa del lavoro e dei suoi diritti la Lega pensa, come Trump e Marie Le Pen, che basti il protezionismo.
Per questo servirà mettere in campo un forte processo di confronto politico e culturale, di cui protagonisti devono essere i rappresentati sindacali nei luoghi di lavoro, che misurano ogni giorno i guasti del Jobs Act nella condizione e nella coscienza delle persone.
Fonte: Il manifesto
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