di Jesús Jaén
Il titolo di questo articolo è un piccolo omaggio a due bravi storici inglesi, i fratelli Hammond, che sono stati il riferimento per altri studi successivi sulla formazione della classe operaia in Inghilterra e nel resto d’Europa.
1. Il vecchio sindacalismo della tappa fordista è in crisi. Anche la parte più positiva – come per esempio il suo carattere rivendicativo – si è andata perdendo. Al suo posto, le organizzazioni tradizionali come UGT (Union General de Trabajadores) o la CCOO (Confederación Sindical de Comisiones Obreras) si sono trasformate praticamente in grandi macchine integrate allo Stato (non benefattore ma depredatore di diritti).
Allo stesso modo, il corporativismo è un’altra variante di questo sindacalismo burocratizzato e concertativo, che pone i propri interessi di casta davanti agli interessi dell’immensa maggioranza delle classi lavoratrici.
Allo stesso modo, il corporativismo è un’altra variante di questo sindacalismo burocratizzato e concertativo, che pone i propri interessi di casta davanti agli interessi dell’immensa maggioranza delle classi lavoratrici.
Tutto ciò si somma a una crisi generalizzata di alcune strutture sociali-lavorative che il noeoliberismo ha raso al suolo al suo passaggio, come segnalano la frammentazione dei lavoratori, la disarticolazione delle organizzazioni operaie e dei diritti sindacali, il regredire della coscienza di classe o l’espulsione di milioni di persone dal cosiddetto mercato del lavoro. La situazione della classe lavoratrice si muove tra la disperazione e il conformismo.
I vuoti che hanno lasciato i sindacati tradizionali nella propria ritirata non sono stati sempre colmati da nuove alternative sindacali, ma da scenari di terra bruciata e anche di collaborazione da parte di una fetta di lavoratori con le politiche liberiste. Gli attacchi ai diritti hanno lasciato milioni di lavoratori salariati senza protezione e senza capacità di rispondere. Non è un caso che se c'è un luogo dove il rapporto di forza tra le classi si esprime più favorevolmente al capitale, questo sia nei luoghi di lavoro. E’ lì che si vive un clima di dominazione di tipo “feudale”, favorito dalla disoccupazione e dalla altissima precarietà lavorativa.
2. Esiistono molti esempi che illustrano la crisi attuale del movimento operaio e sindacale. In primo luogo, i dati sugli iscritti (anche se in molti casi sono compensati da nuove fusioni/incorporazioni) e soprattutto la relazione che si stabilisce tra lavoratore e sindacato (basata su una concezione più utilitarista, più strumentale, che su una coscienza di classe o anticapitalista). E’ possibile che tutto questo abbia cominciato a cambiare? Non ne sono sicuro. Nonostante ciò, la gravità della crisi e le brutali misure economiche hanno contribuito alla creazione di una nuova coscienza del fatto che in questa società le disuguaglianze sociali e la ricchezza sono distribuite ingiustamente.
Sicuramente a ciò hanno contribuito in forma decisiva la situazione del nuovo lavoratore povero e precario, la disoccupazione di massa e la disintegrazione delle vecchie strutture sociali basate sull’antico contratto sociale. Per dirlo chiaramente, molti lavoratori e lavoratrici si sono “resi conto” di essere tali quando è spuntata la crisi e sono caduti dall’albero sul quale pensavano di stare al sicuro (come parte di una classe media più preoccupata del consumo a breve termine che dei vecchi valori sociali).
3. Una prova alla quale è difficile controbattere riguardante la crisi del vecchio modello sindacale è che dal 14 dicembre del 1988 non si è prodotto alcuno sciopero generale che abbia visto una partecipazione davvero di massa, e di ragioni ce ne sono molte! Il panorama è cambiato qualitativamente nei trenta anni successivi al 1988: delocalizzazione industriale, nuove tecnologie, disoccupazione e precarietà, così come un aumento qualitativo della sfiducia di milioni di lavoratori e lavoratrici nei confronti dei dirigenti sindacali e politici. Però influisce anche il fatto che lo sciopero generale di un tempo non è più visto come un’arma utile per sconfiggere leggi tanto importanti come la riforma del lavoro o per mettere fine alla disoccupazione.
Tuttavia, questo scenario contrasta con un altro che abbiamo visto fin dal nascere del movimento del 15M nel maggio 2011. Mi riferisco al successo che hanno avuto alcune Maree come quelle che hanno caratterizzato la sanità, l’educazione o altri movimenti sociali-lavorativi nella comunità di Madrid o in altre province. In alcune di esse, come nel settore della sanità, il peso e il protagonismo dei vecchi sindacati sono stati tra il molto debole e il nullo.
Anche se siamo di fronte a un tema complesso da analizzare, credo che il successo – tanto in termini di massività che per alcuni risultati conseguiti – sia dovuto a varie ragioni:
• Il movimento nasce dal basso con un potenziale democratico molto elevato, diffidente nei confronti delle manipolazioni da parte dei vertici sindacali o politici e creando nuove strutture basate sull’autorganizzazione.
• Non si tratta solo di un movimento rivendicativo sul lavoro, ma unisce queste rivendicazioni legittime con rivendicazioni sociali molto potenti, radicate nella popolazione (anche in settori conservatori), come la difesa di un ospedale come patrimonio di una città o di un quartiere di fronte a imprese che vengono associate a un depredatore vorace avido di profitti.
Coloro che sono stati protagonisti di questo movimento (dal basso e in difesa del pubblico) hanno incorporato nuove forme di lotta basate su una Strategia (con la S maiuscola). Non si sono limitati a azioni per star bene (come può essere percepito uno sciopero di un giorno) ma hanno combinato per mesi la mobilitazione nelle piazze o nei luoghi di lavoro, con le denunce nei tribunali o nei parlamenti. In questo modo – e integrando nel programma le rivendicazioni dell’insieme della popolazione – si ottiene un fronte, o alleanza, tra lavoratori del settore e vicini, utenti, alunni, pazienti e tutti i settori colpiti.
4. Insomma, non si tratta di stigmatizzare i movimenti sindacali basati sulla difesa dei contenuti di classe. Tutto l’opposto. Si tratta di rafforzare quei movimenti cercando alleanze strategiche con altri settori di lavoratori o anche con ampie frange della classe media che sono state colpite dalla crisi economica. Si tratta, al tempo stesso, di chiudere un ciclo di sconfitte e demolizioni alle quali non sono estranei i dirigenti dei sindacati tradizionali.
Sicuramente si potrà dire che queste alleanze sono più facili quando si tratta di temi come la sanità o l’educazione. Certo, però a mio avviso in tutti i collettivi operai o di lavoratori salariati, esiste quel potenziale per stabilire alleanze strategiche o puntuali con altri settori (che si chiamino utenti, consumatori, pazienti, genitori, alunni,..). Questo hanno dimostrato negli ultimi recenti scioperi con richiami all’unità e alla solidarietà le lavoratrici e i lavoratori di Coca Cola o Telemarketing. Nel primo caso chiedendo che non si consumi quella bibita. Nel secondo, informando sulle condizioni di precarietà e chiedendo che si bloccassero i call center di Movistar.
Ciò che dobbiamo analizzare in fondo è come questa società europea sotto il capitalismo si è focalizzata non solo sullo sfruttamento del lavoro e sulla produzione di merci; ma anche, sempre più, sui processi di messa a valore di queste merci (pubblicità, commercializzazione, trasporto...), così anche su una nuova maniera di redistribuire un salario che non ha solo la forma monetaria, ma anche di servizi per la società (salute, educazione, servizi sociali, pensioni..).
Tutto questo è ciò che ci obbliga a sviluppare strategie di apertura nei confronti della popolazione nel suo insieme, partendo dal riconoscimento dell’esistenza delle classi, però con l’obiettivo di cercare la miglior opzione strategica e tattica nella lotta contro il capitale e lo Stato. Ciò significa che con l’attuale rapporto di forza tra capitale e lavoro e con le nuove strutture tecnologiche, finanziarie e di mercato, non si possono sconfiggere i piani capitalisti se non si ottiene l’unità tra processi produttivi, riproduttivi e di consumo. Per dirlo più chiaramente: uno sciopero generale non può avere successo se a questo non si sommano, oltre alle classi lavoratrici organizzate nelle proprie corporazioni, la popolazione nel suo insieme; cioè, coloro che utilizzano i servizi e partecipano facendo boicottaggi e scioperi contro grandi imprese multinazionali o corporazioni finanziarie. Per esempio, non si può vincere il padronato bancario con la forza lavoro impiegata nel settore; oggi più che mai, c’è bisogno di disegnare nuove forme di azione e organizzazione tra il personale impiegato e consumatore che si diriga al cuore del sistema di dati informatizzati che fanno sì che l’economia funzioni.
5. Tutto questo mi porta a difendere un modello sindacale che, pur essendo di classe, non si limita nella sua azione alla difesa di interessi lavorativi e, in alcuni casi, esclusivamente corporativi. Il sindacalismo del 21esimo secolo deve essere un sindacalismo che si costruisce “dal basso” in piena fusione con altri movimenti sociali (non mi riferisco alle strutture sindacali ma alle pratiche quotidiane). L’esperienza ricchissima del 15M e delle Maree deve esserne pietra angolare. In questo senso mi sembra nefasto il settarismo che ha tenuto un settore del sindacalismo (incluso il più radicale) disprezzando questi movimenti come movimenti di classi medie. Questo, secondo me, significa non intendere affatto né la nuova composizione di classe delle società di oggi, né il ruolo giocato dagli attori principali. Si tratta di visioni obsolete che pensano che la classe operaia si riduca al vecchio proletariato industriale e che il resto è classe media o piccola borghesia con coscienza reazionaria.
Il nuovo sindacalismo dovrebbe anche imparare dalle nuove forme di lotta e autorganizzazione che si sono date negli ultimi sei anni. I movimenti assembleari e democratici, l’indipendenza rispetto allo Stato e l’utilizzo delle stesse istituzioni (della giustizia o politiche), per non lasciare agli avversari degli strumenti tanto dannosi e potenti. E così ci sono i successi giudiziari della Marea Blanca ma anche la presentazione di mozioni in comuni o parlamenti, che sono servite a dare una dimensione politica alle rivendicazioni. In questo senso posso dire che il Movimento Assembleare dei Lavoratori della Sanità è una organizzazione pioniera nella combinazione di forme differenti di lotte, facendo appello tanto alla mobilitazione dei lavoratori quanto alla solidarietà da parte dei cittadini o all’appoggio istituzionale.
Un altro aspetto fondamentale dovrebbe essere anche il carattere internazionalista di questi movimenti sindacali. Giacché non esiste oggi un problema in un Paese che non abbia ramificazioni e origini nella unione Europea o nei Trattati di libero commercio. La ricerca di uscite comuni e alleati in altri Paesi dovrà essere una pratica abituale se si vuole contrastare la politica globale del capitale.
6. Torniamo al titolo di questo articolo. Il Lavoratore della città. Anche se suppongo che a questo punto dell’articolo già si sarà capito, mi piacerebbe insistere sul fatto che la pratica e l’azione dei movimenti sindacali del 21esimo secolo debba essere rinnovata e riattualizzata sulla base di una realtà socio-economica e politica (e ovviamente tecnologica) molto nuova. Credo che la definizione migliore che potremmo dare per questo futuro è che deve avere una dimensione sociale. Il raggio di azione del sindacalismo non si può limitare al proprio “settore” (e molto meno alla propria affiliazione, come fanno i sindacati tradizionali), ma deve allargarsi a tutta la comunità colpita da una o l’altra politica, che sia la privatizzazione di un ospedale, la chiusura di una fabbrica dove si producono bibite di una multinazionale, o i contratti del settore delle telecomunicazioni a carico delle imprese del IBEX 35.
Il “Lavoratore della Città è allo stesso tempo un Utente del Lavoro” e come tale è sfruttato, precarizzato, colpito dai tagli o dagli abusi delle corporazioni finanziarie o imprese di energia. Non si tratta semplicemente di contare i tre milioni di dipendenti pubblici, i sei milioni che vivono con salari indegni o i quattro milioni di disoccupati; si tratta anche di coloro che non possono pagare il riscaldamento, le medicine o che devono vivere in rifugi o mangiare ogni giorno in una mensa per i poveri.
Questa è l’azione sindacale e sociale che dobbiamo intraprendere dai luoghi di lavoro ai quartieri. Non possiamo lasciare che le organizzazioni non governative, le organizzazione di carità o la Chiesa assumano il compito che corrisponde a uno Stato, però nemmeno possiamo lasciare che esse sostituiscano con la propria azione il ruolo che dovrebbero ricoprire sindacati e movimenti sociali. Per questo esistiamo e in questo ci incontriamo con una tradizione storica nella quale molti decenni fa erano proprio i sindacati che assumevano queste funzioni. Di tutto questo – a parte la distanza temporale – parlano due storici inglesi che scrissero sue libri bellissimi sull’anarchismo e sul movimento operaio spagnolo. Chris Ealham nel suo libro sulla CNT e Temma Kaplan nel suo saggio su Origini sociali dell’anarchismo in Andalucia. A questo si riferiva quando affermava che:
“La grande forza dell’anarchismo andaluso della fine del 19esimo secolo risiede nella fusione tra la tradizione comunitaria e quella sindacalista militante. Nelle città dove la grande maggioranza della popolazione lavorava nell’agricoltura, i sindacati di lavoratori agricoli arrivarono a essere identificati con la comunità, come un tutto”.
Sono passati più di cento anni e la società è cambiata, però il conflitto di classe continua ad essere, di base, lo stesso.
Articolo pubblicato su vientosur.info
Fonte: Communianet.org
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