di Roberto Ciccarelli
Nel 2016 sono stati venduti 133,8 milioni di voucher con un incremento, rispetto al 2015, pari al 23,9%. Lo certifica l’Osservatorio sul precariato dell’Inps che segnala una «significativa flessione» della vendita dei voucher a dicembre 2016 rispetto all’anno precedente. Rispetto al +57,7% di aumento del 2015 sul 2014 la crescita si è attestata «su valori prossimi allo zero»: a dicembre 2016 i voucher venduti sono 11,5 milioni, «sostanzialmente equivalenti» ai 11,4 milioni del dicembre 2015. Per l’Inps le cause sono la maggiore tracciabilità dei «buoni lavoro» introdotta dal governo Renzi e l’obbligo di comunicazione preventiva sull’orario di svolgimento della prestazione lavorativa.
MENTRE LA CGIL scalda i motori per lanciare la campagna referendaria che chiede l’abrogazione dei voucher, emerge il primo dato che potrà essere usato per neutralizzare la portata politica del quesito (l’altro è sulla responsabilità solidale negli appalti). Il commento del ministro del lavoro Poletti è significativo in questa prospettiva: «È naturale constatare come questa dinamica possa essere considerata un primo effetto delle norme sulla tracciabilità. Siamo comunque impegnati in un lavoro di attenta analisi per ricondurre i voucher alle finalità per le quali erano stato originariamente introdotti».
TUTTO BENE ALLORA? Come sempre conta il modo in cui si leggono i dati. La flessione del numero assoluto dei voucher è evidente da mesi. Può avere pesato la tracciabilità, ma anche la saturazione dello strumento usato in maniera combinata con contratti part-time, dipendenti, variamente precari o per coprire la parte emersa del lavoro nero. Va anche detto che la crescita si è fermata, anche se a dicembre sono stati venduti quasi gli stessi voucher dell’anno precedente.
NON È UNA DISCONTINUITÀ, è la conferma dell’anomalia. I ticket lavoro sono cresciuti del 23,9% rispetto al 2015, del 95% rispetto al 2014, oggi superano i 133 milioni. Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil sostiene l’esistenza di un’anomalia tra i dati diffusi ieri dall’Inps e quelli da gennaio a ottobre. «Se la crescita frena – aggiunge – ciò non significa che abbia ricondotto la natura di questo istituto alla occasionalità e accessorietà della prestazione».
SONO DUE LE NOTIZIE che è possibile estrarre dal report dell’Inps per confermare la ragione del Jobs Act e il suo fallimento. Continua il boom dei licenziamenti disciplinari, aumentati da 53.056 a 67.374, ovvero il 27 per cento rispetto al 2015, del 34% rispetto al 2014. Per l’Inps non è evidente ancora il collegamento con l’introduzione del contratto a tutele crescenti del Jobs Act. Tutto porta a pensarlo, evidentemente. Un’altra causa è la restrizione l’onerosità dell’uso della cassa integrazione in diminuzione dal 2015: le ore di Cig sono state 37,8 milioni, in calo dell’11% rispetto al 2015 (42,4 milioni). Questo può avere spinto le imprese a licenziare. Va notata l’assenza delle famose «politiche attive» che Renzi ha legato all’esito del referendum del 4 dicembre, poi perso. Serve la riforma delle competenze Stato-Regioni per dare gambe all’agenzia Anpal in un quadro normativo molto discutibile peraltro. «La crisi di Governo ha impedito l’approvazione degli emendamenti relativi proprio agli ammortizzatori sociali» ricorda Gigi Petteni (Cisl).
TAGLIATI GLI INCENTIVI alle imprese, i contratti a tempo indeterminato sono crollati ancora del 32,3%. Il fronte governativo ha fatto molto rumore sul saldo tra assunzioni e cessazioni nel settore privato: 506 mila nuovi contratti nel 2016, compresi i rapporti stagionali che sono la stragrande maggioranza. Aumentano i lavori a tempo determinato e l’apprendistato, dunque forme di precariato. Per la segretaria confederale della Cgil, Tania Scacchetti i dati confermano la struttura del mercato del lavoro e il sostanziale fallimento del Jobs Act. E rilancia l’allarme sull’aumento dei licenziamenti disciplinari: «Bisogna modificare, per via legislativo e contrattuale, norme, ingiuste e sbagliate che limitano la libertà dei lavoratori, violandone la dignità».
Fonte: Il manifesto
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