di Vania Lucia Gaito
L’allarme sembrava rientrato, dopo l’accordo del governo con le forze militari in protesta. Invece altri disordini sono esplosi, perfino più violenti. Il teatro degli avvenimenti è la Costa d’Avorio, protagonista del nuovo miracolo economico africano. Miracolo economico si fa per dire, perché la sperequazione tra i ricchi e i miserabili è una voragine incolmabile. Neppure con le migliori intenzioni e neppure se il governo ivoriano avesse disponibilità economiche maggiori di quelle di cui attualmente dispone.
Facciamo un passo indietro. Se la settimana scorsa una frangia militare si è ammutinata in diverse parti del Paese, un motivo c’è. Fino agli anni ’60, la Costa d’Avorio è stata, di fatto se non di nome, una colonia francese. Come il Mali, come il Gabon, come il Congo. Per evitare lunghe guerre di occupazione, dopo la disfatta delle forze francesi in Algeria e Indocina, fu proclamata l’indipendenza. Di nome, si capisce, perché dal punto di vista economico i paesi francofoni africani sono e restano delle colonie. E’ la banca centrale di Parigi a controllare le loro monete e sono sempre i francesi a gestire e controllare le risorse agricole e minerarie. E delle stesse risorse agricole, assai poco resta agli ivoriani: la gran parte della produzione è destinata ai mercati europei, arricchendo le solite poche tasche. Agli imprenditori francesi, che qui chiamano “padroni”, è tutto dovuto. E le tasse sono una barzelletta.
I governi devono chiaramente essere graditi all’Eliseo. Se così non fosse, i capi di stato vanno sostituiti, con qualunque mezzo. Guardate come sono stati bravi con l’olocausto del Rwanda, ventidue anni fa. Certo, non è finita come speravano, ma ce l’hanno davvero messa tutta. E pazienza se ci muore un milione di persone: tanto sono solo stupidi africani!
E’ accaduto così anche qui, in Costa d’Avorio. Dopo la presunta indipendenza, i governi che si sono succeduti sono sempre stati filofrancesi e pronti a pagare quella che tutt’oggi si chiama tassa coloniale. La scintilla che ha innescato la guerra civile che ha devastato il Paese dal 2002 al 2011 è stata, come sempre, una scintilla di discriminazione razziale. Nel corso dei decenni, moltissimi malesi e burkinabè si sono spostati nei territori del nord ivoriano alla ricerca di maggiore stabilità e nuove fonti di reddito. Sia chiaro, parliamo di gente che scappava alla miseria, alla guerra e alla fame, non di grandi possidenti e promettenti imprenditori. E, negli anni, il tessuto sociale del nord si è lentamente modificato. Fino al momento in cui qualcuno non ha pensato bene di immaginare una “razza pura ivoriana”, più o meno come da noi in Europa si immaginò la razza pura ariana e in Rwanda la dicotomia Tutsi – Hutu.
Il tentativo era quello di relegare gran parte della popolazione del nord a un ruolo di secondo grado, non riconoscendo loro la cittadinanza. La realtà era che l’allora presidente Laurent Gbagbo non era per nulla gradito all’Eliseo. Troppo nazionalista, anche se solo di facciata. Troppi proclami, troppe chiacchiere che potevano mettere in discussione il predominio assoluto dei francesi. Metti caso che questi semi di nazionalismo fioriscano in qualche cervello… no, proprio non era il caso. E, come di prassi, si armò una fazione contro l’altra sperando si scannassero fra loro. Il nord del Paese si organizzò con un esercito ribelle guidato dal partito di quello che è l’attuale presidente, Alassane Ouattara.
Ouattara era già stato consigliere speciale del direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, vice-governatore della Banca centrale degli Stati dell'Africa dell'ovest e primo ministro dal 1990 al 1993, funzione creata appositamente con un emendamento alla Costituzione il 7 novembre 1990. Come un antesignano del nostro professor Monti, fu chiamato a fare il primo ministro in un momento in cui il debito pubblico era fuori controllo e i prezzi delle materie prime erano in caduta libera. E, proprio come un antesignano del nostro professor Monti, mise in atto una politica di rigore fiscale che piegò la popolazione (svalutazione del Franco CFA, riduzione delle spese, ampliamento della base imponibile, privatizzazioni…) ma ridiede fiducia ai finanziatori. Che non erano certo ivoriani. Inutile specificare la sua vicinanza alla Francia, dove si rifugiò poi più volte nei momenti caldi della guerra civile.
Formalmente, dunque, gli ivoriani del nord, discriminati per le loro radici “non pure”, si armarono contro il governo centrale e insorsero. Alle elezioni del 2000, la candidatura a presidente di Ouattara fu bocciata dalla Corte Suprema ivoriana per “dubbia nazionalità”. Restarono in corsa Guèi e Gbagbo, e vinse Guèi. O almeno si proclamò vincitore, finché i sostenitori di Gbagbo non insorsero costringendolo alla fuga. E Fu così che Gbagbo vinse le elezioni.
Magrissima vittoria, si capisce, perché le spaccature interne al paese aumentavano e i comuni del nord passavano via via sotto il controllo dell’RDR (Unione dei Repubblicani dalla Costa d’Avorio), sostenitori di Alassane Ouattara. I disordini si susseguirono e assunsero aspetti sempre più allarmanti finché le pressioni della comunità internazionale costrinsero i leader dei quattro principali partiti politici ad un incontro per stabilire una tregua. Non durò molto, se mai ci fu anche solo nelle intenzioni. Pochi mesi più tardi ci fu un tentativo di colpo di stato, represso nel sangue, e meno di un anno dopo, sempre sotto la forca della comunità internazionale, vennero firmati gli accordi di pace. Gbagbo ammise la candidatura di Ouattara alle previste elezioni del 2005, ma continuò a rimandarle di volta in volta fino al 2010.
Le elezioni sono un delirio. I risultati delle elezioni, incomprensibili. La Commissione elettorale indipendente, organo non ufficiale e che non può rilasciare i risultati finali, proclama vincitore Alassane Ouattara; il Consiglio Costituzionale, composto quasi interamente da sostenitori di Laurent Gbagbo, invalidando i voti di 13 distretti, proclama rieletto il presidente uscente. I rappresentanti della Comunità europea e il segretario dell’Onu riconoscono Ouattara come nuovo presidente e Nicolas Sarkozy invita Gbagbo a lasciare il potere.
Il risultato è che ci si ritrova con due governi e due presidenti. Il primo, quello di Ouattara, blindato all’interno dell’Hotel du Golf, presidiato dalla gendarmerie e da 900 caschi blu dell’Onu; il secondo, quello di Gbagbo, pronto ad assaltare. Inutile dire che la presenza di 5.000 militari Onu, inclusi uno Stato Maggiore con due generali e 50 colonnelli, servivano alla causa di Ouattara e rifornivano costantemente i ribelli con armi e munizioni. Furono cannoneggiati dall’esercito quattro volte, e i media occidentali scrissero che erano state attaccate le “forze di pace”. Restarono sul campo più di tremila morti, le rivolte scoppiarono ovunque, prima nel nord e poi via via verso sud, fino all’arresto di Gbagbo e alla sua traduzione davanti al tribunale penale internazionale con l’accusa di crimini contro l’umanità.
Quello che resta è la desolazione di un Paese devastato. E le promesse fatte ai ribelli sostenitori di Ouattara durante la guerra. Dodici milioni di franchi Cfa ciascuno, circa 18.000 euro, in un paese in cui lo stipendio medio è di 65.000 franchi Cfa, meno di cento euro. Promesse fatte e mai mantenute, fino alla scorsa settimana, quando i militari hanno detto basta. Ad Abidjan, a Bouake e a Yamoussoukro i disordini sono aumentati fino all’ammutinamento. Poi, il sequestro del Primo Ministro e la capitolazione del governo. Pare che già dall’inizio di questa settimana alcuni militari abbiano cominciato a ricevere quanto previsto dagli accordi. Ed è stato il disastro.
Perché gli altri militari, le forze di polizia e la gendarmerie hanno reclamato lo stesso benefit. Anche loro hanno perso figli, genitori e parenti, durante la guerra. Anche loro hanno avuto le case distrutte, le famiglie sfollate. Subito dopo si sono uniti agli scontri gli studenti, che hanno fatto barriera per impedire ai dipendenti dei ministeri di entrare al lavoro. Sono stati dispersi a manganellate e lacrimogeni. Ieri, ad Abidjan, capitale economica del Paese, una cinquantina di manifestanti, hanno fatto irruzione in una scuola privata, forzando i controlli di sicurezza e terrorizzando i ragazzi. E razziando telefoni cellulari e portafogli. Forse, si dice, con l’obiettivo di creare un sodalizio con gli insegnanti della scuola pubblica, pagati meno di una miseria.
I disordini continuano a susseguirsi. L’ambasciata italiana comunica quali sono i posti in cui non recarsi, ma ovviamente solo dopo che sono avvenuti episodi che possono mettere a repentaglio l’incolumità. In realtà, nessuno sa dove e se scoppieranno nuovi focolai. I checkpoint militari sono ovunque, più di prima. Ma ci sono interi quartieri in cui non metterebbero mai piede. Interi quartieri di gente ridotta in miseria, disperata e senza prospettive. E la miseria, si sa, non è consigliera di pace.
E adesso, diteci ancora come aiutarli a casa loro.
Fonte: MicroMega online
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