di Michele Giorgio
Si parla di cessate il fuoco ma dietro le quinte si lavora per continuare e allargare la guerra in Siria. I sauditi non hanno rinunciato alla loro intenzione, annunciata nei giorni scorsi, di prendere parte con truppe di terra alla «lotta contro l’Isis». È fin troppo chiaro che un intervento armato saudita, con l’appoggio degli alleati sunniti, avrebbe come obiettivo reale quello di contrastare l’offensiva dell’esercito governativo siriano in corso, con il sostegno dell’aviazione russa, contro le forze islamiste e jihadiste anti Bashar Assad, appoggiate proprio da Riyadh.
Il rischio è che questa possibile operazione saudita finisca per scatenare un confronto armato diretto con l’Iran che in Siria ha già consiglieri militari e volontari. Riyadh vuole affermare una leadership regionale, che Tehran mette in discussione, e punta a partecipare alla “spartizione” della Siria. Re Salman è convinto che i colloqui per il cessate il fuoco, i negoziati tra governo siriano e opposizioni che forse riprenderanno in Svizzera e le intese tra Usa e Russia porteranno a un congelamento della situazione sul terreno. Quindi si propone di presidiare militarmente, con l’appoggio di altre monarchie e della Turchia di Erdogan, le ampie porzioni di territorio siriano strappate negli anni passati dai “ribelli” al controllo di Damasco. Tuttavia con il passare dei giorni cresce l’esitazione degli alleati a prendere parte a un’operazione con truppe di terra che presenta rischi eccezionali. Senza dimenticare le perplessità di Washington e che Riyadh da mesi è impegnata in una ampia e costosa campagna militare in Yemen, con risultati modesti almeno sino ad oggi, contro i ribelli Houthi sostenuti da Tehran.
Il rischio è che questa possibile operazione saudita finisca per scatenare un confronto armato diretto con l’Iran che in Siria ha già consiglieri militari e volontari. Riyadh vuole affermare una leadership regionale, che Tehran mette in discussione, e punta a partecipare alla “spartizione” della Siria. Re Salman è convinto che i colloqui per il cessate il fuoco, i negoziati tra governo siriano e opposizioni che forse riprenderanno in Svizzera e le intese tra Usa e Russia porteranno a un congelamento della situazione sul terreno. Quindi si propone di presidiare militarmente, con l’appoggio di altre monarchie e della Turchia di Erdogan, le ampie porzioni di territorio siriano strappate negli anni passati dai “ribelli” al controllo di Damasco. Tuttavia con il passare dei giorni cresce l’esitazione degli alleati a prendere parte a un’operazione con truppe di terra che presenta rischi eccezionali. Senza dimenticare le perplessità di Washington e che Riyadh da mesi è impegnata in una ampia e costosa campagna militare in Yemen, con risultati modesti almeno sino ad oggi, contro i ribelli Houthi sostenuti da Tehran.
Erdogan, ormai stretto partner di re Salman, preme da tempo, in particolare sugli Usa, per l’avvio di una vasta operazione in Siria. Fa i conti però con una forte opposizione interna all’impegno militare turco. Ieri persino il giornale Sabah, megafono abituale delle posizioni del governo, ammoniva il sultano dal lanciare una invasione della Siria. «Se le nostre truppe entreranno (in Siria) faranno il gioco della Russia e di Bashar Assad che accuseranno la Turchia di essere un occupante – ha avvertito Emre Akoz, l’editorialista di Sabah – e il Paese dovrà necessariamente scontrarsi con la coalizione russo-siriana». Pesa su Erdogan anche l’atteggiamento Usa sul futuro del popolo curdo, che resta in bilico tra il non andare contro gli interessi di un alleato prezioso come la Turchia e il sostegno all’autodeterminazione del Kurdistan o, per essere più precisi, solo di un parte di esso (Iraq). Una posizione ambigua che, si è visto in questi ultimi giorni, irrita il sultano che dall’Amministrazione Obama vuole un appoggio pieno alla sanguinosa repressione dei curdi.
In Giordania si preparano a fare i conti con le pressioni dei sauditi. Re Abdallah non vuole deludere i “fratelli Saud” ma sa che rischia di pagare un prezzo molto alto per la partecipazione diretta, con truppe, alla spedizione militare che vorrebbe Riyadh. Da più parti arrivano inviti alla cautela e a non sacrificare la stabilità relativa che il regno hashemita ha saputo conservare nonostante la guerra in Siria, l’emergere dello Stato islamico e la crisi yemenita, non mancando allo stesso tempo di aiutare i programmi sauditi e statunitensi di assistenza, armamento e addestramento dei “ribelli” siriani. «Essere trascinati in avventure e scommesse oltre i nostri confini è una opzione che potrebbe costare stabilità e sicurezza alla Giordania…Se le cose si potessero decidere sono sulla base di costi e ricavi non ci sarebbe spazio per l’esitazione», ha scritto due giorni fa su ad Dustour l’influente analista Uraib al Rantawi, contrario alla partecipazione al piano militare saudita. Al Rantawi ha ricordato che la Giordania, pur rimanendo nel campo sunnita nei passati cinque anni, con la sua linea prudente ha comunque conservato la capacità di parlare a tutti, anche all’Iran.
La determinazione di Riyadh a prendere parte diretta alla “riconquista sunnita” di Damasco perciò si scontra con gli interessi nazionali e le esigenze di alcuni dei principali alleati. Non sorprende perciò che prima il generale Ahmed Asiri, portavoce militare saudita, e poi il ministro degli esteri Adel al Jubair abbiano precisato questa settimana che l’offerta del regno è subordinata al sostegno della Coalizione anti-Isis messa in piedi da Washington nel 2014. «La coalizione agirà nel modo in cui ha operato in passato, come una coalizione internazionale, anche in presenza di un contingente di terra in Siria», ha spiegato al Jubeir dopo aver incontrato il segretario di Stato americano John Kerry. Le rinnovate ambizioni dei Saud in Siria cominciano a sgonfiarsi.
Fonte: il manifesto
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