di Stefano Iucci
L’Italia sta con Cipro, Estonia, Ungheria e Romania. Non si tratta di un raggruppamento dei prossimi campionati europei di calcio, ma di un girone ben poco lusinghiero: quello che tiene insieme i paesi del continente con il più alto tasso evasione fiscale. Di dati ne arrivano in continuazione. Gli ultimi quelli di Eurispes che, nel rapporto pubblicato poche settimane fa, parla di 540 miliardi di sommerso che, ipotizzando una tassazione media al 50%, rappresentano – solo su questo capitolo – 270 miliardi di evasione fiscale. Poi ci sono i dati del Mef, più contenuti (91 miliardi), mentre fonti europee indicano in 130 miliardi la cifra sottratta all’erario.
Nulla di nuovo, si dirà. Ma forse è utile andare a vedere come si articola l’evasione fiscale italiana: premessa necessaria – oltre alla volontà politica – per andare a stanarla. Quello che colpisce, in Italia, è soprattutto il gap tra Iva dovuta e Iva effettivamente pagata: mentre nella Francia è al 9%, nel Regno Unito al 10% e in Germania all’11%, lo scostamento italiano è addirittura al 33,6%: ben 47 miliardi di euro sottratti allo Stato. In comune con gli altri paesi europei c’è invece la presenza dell’elusione dei grandi contribuenti nazionali e internazionali, unita a quello che comunemente viene definito come abuso di diritto: grandi multinazionali come Google o Apple che cercano di pagare meno tasse sfruttando le diverse legislazioni fiscali dei paesi in cui operano.
In rapporto a questa complessità, la Cgil ha da poco tracciato una proposta articolata per provare ad assestare un colpo forte all’evasione. Naturalmente si parla anche di come recuperare il dovuto, affrontare elusione e abuso di diritto dei grandi soggetti multinazionali e intervenire sulla repressione, per esempio modificando la nuova disciplina del raddoppio dei termini voluta dal governo Renzi e che, di fatto, rischia di trasformarsi in un condono gratuito di gran parte degli accertamenti degli ultimi due anni. Ma l’obiettivo centrale, spiega Cristian Perniciano, responsabile fisco della Cgil nazionale, “è quello di puntare a una riduzione strutturale della ricchezza evasa, piuttosto che a recuperare un’imposta non pagata. Lo strumento di questa battaglia è il ‘rischiaramento’ dei flussi: cercare, cioè, di intercettare i redditi nel momento in cui vengono prodotti. Il recupero è importante, ma se non aumenta il reddito dichiarato, il problema rimane”.
Strettamente legata a questo ragionamento c’è la cosiddetta tax compliance: la filosofia, cioè, di un fisco non necessariamente nemico, ma che in qualche modo aiuta e “convince” il cittadino a essere in regola. Insomma, prevenire piuttosto che curare. D’altro canto la Corte dei Conti, in un’audizione del 2013, stimò che gli uffici dell’Agenzia delle Entrate avevano emesso ruoli per 807 miliardi nel periodo 2002-13, riuscendo tuttavia a riscuoterne solo 70. Di questi, 545 sono ancora teoricamente ancora da riscuotere, ma 107 riguardano soggetti in fallimento, mentre 193 oggetto di sgravio totale.
La Tax Compliance
Un’impostazione, questa, che Alessandro Santoro, professore di Scienza delle Finanze alla Bicocca di Milano, condivide.
“È l’approccio delle migliori amministrazioni fiscali al mondo. Incentivare, cioè, i contribuenti all'adeguamento spontaneo. Ormai non è complicato, perché oggi le amministrazioni fiscali sono in possesso di una quantità enorme di dati che vanno utilizzati per costruire ‘profili di rischio’ dei contribuenti, dialogando con loro prima della dichiarazione e facendo presente che non possono dichiarare ciò che vogliono, perché l'amministrazione fiscale possiede elementi di partenza che circoscrivono l'ambito delle dichiarazioni plausibili. Alla repressione bisogna poi, necessariamente, affidare i casi per i quali la prevenzione non funziona”.
“Sia chiaro – aggiunge lo studioso – l’evasione fiscale degli autonomi è molto cospicua in tutta Europa. In Danimarca, un paese dove la moralità fiscale è senz’altro molto più elevata che da noi, il tasso arriva al 50 per cento. Il problema è che questa percentuale, visto il tessuto economico italiano fatto di piccole realtà imprenditoriali, da noi ha un’incidenza complessiva molto più elevata. La piccola dimensione può certo favorire dinamismo e agilità, ma rende anche più fragili e esposti alla tentazione di evadere il fisco”.
Tra gli esempi più avanzati in Europa c’è sicuramente quello della Francia che ha esperienze importanti di dialogo preventivo con gli utenti. Ma, soprattutto, il Regno Unito: “Si sono dati un obiettivo molto ambizioso – racconta Santoro –: avere tutte le dichiarazioni fiscali precompilate entro il 2020. Sarebbe, questo, un passo fondamentale verso l’adeguamento spontaneo. Il precompilato serve soprattutto a evitare gli errori e a facilitare le operazioni sia per il contribuente che per l'amministrazione. Ma per i lavoratori autonomi e gli imprenditori, per le dichiarazioni Iva, l’invio di moduli precompilati renderebbe chiaro al contribuente che l'amministrazione è già in possesso di una serie di dati che provengono dai clienti, dai fornitori, dalle dogane, dai consumi e quant'altro e che, quindi, i margini di manipolazione sono ridotti. Anche noi dovremmo darci un obiettivo di questo tipo”.
La trappola dell’Iva
La grande quota di Iva evasa, come detto, rappresenta un primato tutto italiano. “La questione cruciale – argomenta Perniciano – è che in Italia abbiamo un numero eccessivo di contribuenti che autodichiarano il proprio reddito. Per limitare questo danno pensiamo sia necessario l'invio delle fatture all’Agenzia delle Entrate con un passaggio che sia più semplice rispetto alla classica fatturazione elettronica”.
Con le moderne tecnologie a disposizione, in sostanza, è possibile ipotizzare un’app, fornita direttamente dall’Agenzia che renda possibile l’incrocio immediato dei movimenti dei clienti e dei fornitori, proponendo anche al contribuente, al momento della dichiarazione dei redditi, un’ipotesi di imponibile Iva. Importante sarebbe anche adottare il cosiddetto Reverse Change: in sostanza un meccanismo che fa sì che l’Iva dovuta venga pagata pezzo per pezzo a ogni singolo passaggio commerciale gravosa per l’erario l’eventuale evasione finale. L’evasione nei passaggi intermedi sarebbe in qualche modo ostacolata dal fatto che il pagamento dell’Iva è legato alla detraibilità dell’imponibile. Andrebbe ripristinata, infine, la trasmissione telematica dei corrispettivi giornalieri per i commercianti: a differenza dello scontrino, che permette solo controlli successivi, questo flusso di dati rende possibile una verifica dei dati e l’incrocio-raffronto con i versamenti periodici dell’imposta.
Il ruolo dell’Agenzia delle Entrate
Naturalmente tutto ciò ha bisogno di un’azione efficace dell’Agenzia delle Entrate. Che per la verità ultimamente non ha vissuto mesi sereni. Dai 767 dirigenti decaduti per una sentenza della Consulta, e non ancora rimpiazzati, fino all’allarme, lanciato recentemente dalla direttrice Rossella Orlandi, sull’abbassamento della soglia del contante decisa dal governo. Nonostante questa situazione e grazie, va detto, al grande impegno dei lavoratori, nel 2015 si supereranno i 14,2 miliardi di euro recuperati. Un ottimo risultato, ma sempre una goccia rispetto al dovuto, a conferma di quanto si diceva prima: e cioè che i redditi vanno intercettati prima che sia possibile l’evasione.
Paradossalmente, però, mentre si dichiara a gran voce che la lotta all’evasione fiscale è uno degli obiettivi prioritari dell’azione di governo, proprio in questi anni l’Agenzia – che nel 2012 è stata incorporata in quella del Territorio – ha subìto pesanti riduzioni: “Nel 2013 una cinquantina di uffici sono stati chiusi grazie alla spending review – spiega Luciano Boldorini, della Fp Cgil –. E quest'anno, per effetto del decreto 66/2014, dovranno esserne liquidati altri 53: non piccoli presìdi, ma realtà ubicate in zone economicamente significative; realtà, ad esempio, come Lucera e Gela che hanno centomila abitanti. In questo modo viene meno un presidio di legalità e quell'assistenza ai contribuenti che è uno dei compiti strategici dell’Agenzia, se si vuole davvero puntare alla tax compliance e al fisco amico. Si tratta, quest’ultimo, di un aspetto fondamentale per il recupero delle risorse perché una discreta percentuale di quei 14 miliardi “scovati” quest’anno non è frutto di un’evasione vera e propria, ma di errori nella compilazione della dichiarazione dei redditi. “E se poi – attacca il sindacalista – vogliamo scovare il sommerso dobbiamo stare sul territorio e incrociare i dati di quel territorio stesso”. Assistiamo, cioè, a uno scenario simile a quello già visto per altre realtà, come le sovrintendenze archeologiche, le prefetture, le camere di commercio: la riduzione dei presìdi dello Stato sul territorio.
Il paradosso del contante
Altro aspetto che inopinatamente descrive l’originalità del rapporto italiano col fisco è l’elevamento da 1.000 a 3.000 euro della soglia massima di utilizzo del contante deciso dal governo nell’ultima legge di Stabilità. Come è noto, molta evasione passa proprio attraverso l’uso del contante, che spesso nasconde anche riciclaggio di denaro sporco, lavoro in nero ed elusione. Non solo la Cgil, ma molti esperti del settore, vorrebbero abbassare questo limite a 500 euro. “Se vogliamo puntare alla lotta all'evasione attraverso l'incrocio delle banche dati – osserva Perniciano – sicuramente incentivare le transazioni non tracciabili, quindi quelle fatte attraverso il contante che è il mezzo meno tracciabile di tutti, non va bene”.
Anche rispetto a questo aspetto, in Europa siamo agli ultimi posti: “In Italia attraverso il denaro elettronico transita il 14,3% delle transazioni, contro il 30% circa di Francia, Germania, e Spagna e, addirittura, il 47% di Norvegia, Svezia, Finlandia”, spiega Maurizio Testa, che si occupa di questo tema per la Fisac Cgil. E che cita, come piccolo ma significativo esempio virtuoso, quello di Bergamo Cashless. Il progetto coinvolge Comune, banche e attori dello sviluppo locale. Clienti e commercianti che utilizzano bancomat e carte possono vincere dei premi settimanali, ma è la collettività anche a guadagnarci. Al raggiungimento di obiettivi mensili prefissati dal progetto, infatti, ogni mese vengono realizzati servizi di pubblica utilità: le ultime iniziative hanno, ad esempio, portato internet veloce in alcune scuole della città.
“I primi risultati del progetto – spiega Testa – sono buoni: si registra un aumento delle transazioni commerciali del 10% e delle transazioni elettroniche del 3,5%”. Insomma, alla fine il saldo positivo è per tutti.
In conclusione: combattere l’evasione non è solo una questione di equità. L’evasione fa male all’economia, allo sviluppo di un paese. Non solo perché genera concorrenza sleale tra le imprese, ma perché generalmente l’evasore medio immobilizza il denaro non versato in patrimonio e dunque in rendita. La gran parte dell’evasione italiana è quella di chi guadagna 100.000 euro e ne dichiara magari 20.000. La gran parte di questi 80.000 euro sfuggiti al fisco non vanno certo in consumi (e dunque sottoposti a tassazione indiretta), ma ad arricchire, appunto, il proprio patrimonio. E, come ci ha spiegato bene Piketty, un’economia in cui la rendita aumenta è tra le più ingiuste possibili.
Fonte: Rassegna sindacale
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