di Marina Montesano
Nel corso del Duecento, l’impero conobbe l’apice (politico, legislativo, culturale) con Federico II di Svevia, nonché una grave crisi seguita alla sua morte prematura nel 1250. I principi elettori tedeschi assegnarono la corona di Germania a suo figlio Corrado IV, che era già stato eletto «re dei Romani» fin dal 1237 e come tale era designato anche a cingere la corona imperiale. La situazione tedesca era comunque in preda al caos che diede origine a un lungo interregno (1256–1272). Se in Germania e nell’Italia comunale la casa di Svevia non aveva saputo sopravvivere alla morte dello Svevo, le cose andavano diversamente in Sicilia dove, sotto la sovranità formale di Corradino, nipote di Federico, l’eredità era stata raccolta dal reggente Manfredi; il quale nel 1258, dopo aver fatto circolare delle false notizie sulla morte di Corradino, cinse con decisione la corona.
Il suo potere sulla Sicilia e sull’intera Italia meridionale fu saldo, per quanto ben presto la verità circa l’illegittimità delle sue pretese al trono trapelò ed egli fu scomunicato da papa Alessandro IV (1254–61), che gli rimproverava soprattutto di proseguire nella linea di Federico per quel che riguardava l’atteggiamento nei confronti del Papato. Manfredi, però, mirava più in alto: ben conscio di non poter aspirare alla corona imperiale, voleva imporsi quale autentico erede della politica paterna non solo nel regno meridionale, bensì in tutta Italia.
Intervenne con forza nelle questioni dell’Italia comunale, collegandosi strettamente ad alcune città di tradizione ghibellina come Pisa, Genova e Siena, e impostando una politica a largo raggio, tanto lungimirante da includere un disegno di egemonia mediterranea. Padrone dei porti pugliesi e alleato dei principati greci sopravvissuti alla conquista latina di Costantinopoli (aveva sposato Elena, figlia del «despota» greco d’Epiro), contribuì, insieme con Genova sua alleata, alla caduta di quell’impero latino di Costantinopoli che era stato essenzialmente una creazione veneziana. Intanto, si alleò con re Giacomo I d’Aragona, al cui figlio Pietro III dette in sposa la figlia Costanza: in questo modo, tesseva le fila di un’alleanza tra Aragona, Genova, Pisa e Sicilia che avrebbe ridotto l’intero bacino mediterraneo occidentale a un «lago ghibellino».
Nel 1260, con il suo appoggio, i senesi e i ghibellini fiorentini esuli batterono a Montaperti in Toscana l’esercito di Firenze, espressione di un governo «popolano» di banchieri e di imprenditori appoggiati dal papa. A Firenze rientrarono gli aristocratici ghibellini, che con le loro persecuzioni determinarono una battuta d’arresto nello sviluppo della potenza bancaria della città. Sconfitta la rivale, Siena restava il primo centro finanziario dell’Italia comunale; e grazie ai capitali senesi Manfredi poteva continuare a svolgere la sua politica di penetrazione nella penisola nonostante l’opposizione di alcuni capi ghibellini (come Ezzelino da Romano), gelosi della sua potenza e che gli rimproveravano il comportamento sleale nei confronti di Corradino di Svevia.
Fu tuttavia proprio la grande fortuna della politica di Manfredi tra il 1258 e il 1261 a porre le premesse per il tramonto della sua buona stella. Era riuscito perfino ad attrarre dalla sua una parte dell’aristocrazia romana, facendosi eleggere alla guida, col titolo di «senatore», del comune di Roma, e minacciando il pontefice nella sua stessa capitale. Fu a questo punto che papa Urbano IV (1261–64), avvalendosi di un diritto acquisito fino dall’XI secolo (e abolito soltanto nel XVIII), in forza del quale il re di Sicilia era vassallo della Santa Sede, lo proclamò deposto dal trono che affidò invece al fratello di Luigi IX, re di Francia, l’intraprendente e spregiudicato Carlo d’Angiò. Nato nel 1226, Carlo aveva importanti feudi sia nel nord, sia nel sud della Francia: era conte d’Angiò, del Maine, di Provenza, di Ventimiglia. Signore di un tratto della costa mediterranea e delle sue città affacciate sul mare, era penalizzato dall’alleanza tra gli aragonesi, i genovesi e Manfredi. Inoltre possedeva terre anche in Piemonte, il che già lo predisponeva a occuparsi della politica italiana. Chiamato nel regno meridionale dal papa, sconfisse Manfredi nella battaglia di Benevento (26 febbraio 1266), in cui il figlio di Federico II cadde combattendo, e due anni dopo batté a Tagliacozzo anche Corradino che, con poche truppe fedeli, era sceso nel regno nel disperato tentativo di riconquistarlo.
La battaglia e lo scontro fra i due condottieri, Manfredi e Carlo, ha dato origine a miti contrapposti, sui quali indaga Paolo Grillo in un libro (L’Aquila e il Giglio. 1266: la battaglia di Benevento, Salerno, pp.136, euro 12) che guarda oltre la propaganda «guelfa, che spiegava la vittoria di Carlo con l’appoggio pontificio e dunque divino, nonché quella ’ghibellina’, che a partire da Dante dà vita alla figura semileggendaria del giovane Manfredi, «biondo, bello e di gentile aspetto». La verità, come ricostruisce Grillo, uno specialista del settore e dell’epoca, è molto più complessa.
Il tema suona estremamente attuale ai nostri giorni, e per questo si consiglia la messa a punto storico-antropologico-giuridica di Aldo Andrea Cassi, Santa Giusta Umanitaria. La guerra nella civiltà occidentale (Salerno, pp.172, euro 13) il quale mostra il fil rouge che unisce le guerre antiche e medievali da una parte, alla strana onomastica che caratterizza le nostre guerre attuali dall’altra: «umanitarie», «preventive», «asimmetriche» e così via, con il loro corollario di casualties ed «effetti collaterali».
Fonte: il manifesto
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