di Andrea Colombo
Wendell Berry è uno strano scrittore contadino. Abituato a ragionare di sementi, terre da arare e concimi, ha tuttavia l’aspetto del raffinato professore universitario. Dice di sé: «Ho coltivato da scrittore e scritto da agricoltore». La casa editrice Lindau ha mandato alle stampe un libro che contiene il succo della sua filosofia: una raccolta di saggi intitolata La strada dell’ignoranza. Leggendolo, si scopre che il suo è un pensiero con solide basi nella tradizione statunitense, da Jefferson a Thoreau. Si definisce infatti un «autentico patriota» e difende i valori rurali di un’America in via d’estinzione. Il suo ecologismo radicale non ha nulla a che fare con gli slogan modaioli dei patiti del web. Berry non usa neanche il telefono, figurarsi internet. Allo stesso tempo non è un reazionario che vorrebbe restaurare un mondo scomparso.
È al contrario, come molti americani, un pragmatico che intende salvare la terra dall’autodistruzione, attraverso metodi semplici, partendo dal basso, riformando prima di tutto la propria vita.
È al contrario, come molti americani, un pragmatico che intende salvare la terra dall’autodistruzione, attraverso metodi semplici, partendo dal basso, riformando prima di tutto la propria vita.
E così ha fatto: nel 1964 ha lasciato New York e, messa tra parentesi una brillante carriera universitaria, si è trapiantato con la moglie in una fattoria del Kentucky, in un paesino battezzato pascalianamente Port Royal. Oggi, a 81 anni, è visto come il profeta della decrescita felice. Dapprima solitario combattente contro le multinazionali e l’industrializzazione selvaggia, nascosto nella profonda campagna americana, si è ritrovato poi in ideale compagnia con i tanti ecologisti che negli ultimi decenni hanno lottato per la salvaguardia del pianeta.
E così sono arrivati i riconoscimenti e la fama (non richiesta): nel 2013 è stato premiato da Obama con la National Humanities Medal; il suo manifesto, «mangiare è un atto agricolo», ha ispirato innumerevoli iniziative e movimenti, fra cui Slow Food; due settimane fa la National Book Critics Circle Awards, il Nobel statunitense per la letteratura, ha annunciato che gli consegnerà il premio alla carriera. Come se non bastasse Robert Redford sta girando un film documentario su di lui. Eppure non è una star: è rimasto restio a concedere interviste o apparire in tv, preferisce la musica dei ruscelli e dei boschi al chiasso delle metropoli e al clamore dei mass media.
Il suo pensiero è a tratti apocalittico. Denuncia infatti un progresso che, credendosi illimitato, ha creato deforestazioni e deserti, anche spirituali. Berry paragona la devastazione dell’agricoltura statunitense all’Olocausto: «Le comunità rurali, le economie e gli stili di vita americani che prosperavano nel 1945, e che, pur imperfetti, erano pieni di promesse per un autentico insediamento umano nella nostra terra, sono ormai state di fatto spazzate via come le comunità ebraiche della Polonia: i mezzi di distruzione forse non sono stati così vistosamente spietati, ma si sono dimostrati altrettanto efficaci».
Che fare dunque? Per evitare di perseguire a tutti i costi una crescita smisurata che ormai equivale all’autodistruzione, Berry è certo che se l’uomo ritorna alla terra, cioè al fondamento dell’esistenza, non tutto è perduto. Prodotti locali venduti a chilometro zero, rispetto delle aree verdi, limitazione dei grandi centri commerciali, sono solo alcune fra le ricette che propone e che potrebbero rivoluzionare il nostro modo di produrre, consumare e pensare. Per cambiare rotta ci vuole «una ribellione pacifica», fondata su una filosofia «agrarianista», che «nasce dai campi, dai boschi e dai torrenti». Non si tratta di un romantico e idilliaco ritorno alla natura: avendo ampia esperienza di lavoro nei campi, Berry sa che molte insidie e difficoltà si celano in un creato non sempre amico dell’uomo. Ma se non si rispetta l’ambiente, per Berry tutto è perduto, anche il benessere apparente delle città.
Da questa visione sono scaturiti diversi romanzi, come Un posto al mondo e Hannah Coulter, saghe famigliari che richiamano la grande narrativa degli scrittori del Sud come William Faulkner. Ambientati a Port William, che altro non è se non un nome di fantasia dato alla sua Port Royal, vogliono dimostrare che un altro mondo è possibile, e che, cambiando i modelli produttivi e di consumo, si può ancora non solo salvare la terra, ma recuperare un sano spirito di comunità e di identità locale.
Recensione pubblicata su La Stampa del 7 febbraio 2016
Fonte: Ecologia Politica
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