La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 26 febbraio 2016

Brexit: il ricatto di Londra e il doppio gioco di Bruxelles

di Alessandro Somma 
Il Regno Unito non ha mai creduto nell’unificazione europea. Vi ha preso parte solo perché conveniva alla sua economia, ma per lo stesso motivo non ha perso occasione per sabotare il sogno di un’Europa dei diritti, sempre più sovrastato dall’incubo di un’Europa dei mercati. Dal canto suo Bruxelles non hai mai contrastato seriamente il gioco di Londra, nei cui confronti, al netto di qualche teatrino, si mostra arrendevole e servile. 
L’anno passato il Parlamento inglese a maggioranza conservatrice ha deciso di consultare tramite referendum gli elettori circa la permanenza o meno nell’Unione europea[1]. Nel contempo il Premier Cameron ha dettato a Bruxelles le condizioni per condurre una campagna referendaria a favore della permanenza: uno status finanziario privilegiato per la City e la possibilità di escludere i cittadini europei dal welfare inglese. 
Sono stati questi i temi principali affrontati durante il Consiglio europeo del 18 e 19 febbraio scorso, il vertice dei Capi di Stato e di governo convocato anche per discutere della drammatica crisi dei profughi provocata dai conflitti mediorientali. In quei giorni la tragedia umanitaria si è manifestata con i consueti bollettini di sbarchi e naufragi, ma i leader europei non se ne sono accorti: erano troppo impegnati a mostrarsi proni al cospetto di Londra. I profughi, invece, possono aspettare e nel mentre subire l’ostilità di chi innalza muri sempre più alti e l’indifferenza di chi lascia fare. 
In fondo, al netto di qualche eccesso nazionalista, il Regno Unito è il custode dell’ortodossia neoliberale, da sempre alla base della costruzione europea. Bruxelles ha dunque fatto il suo gioco, o meglio il doppio gioco: ha fatto finta di cedere a un ricatto, mentre è stata ben lieta di assecondare la deriva voluta dai nemici dell’Europa dei diritti. 
Europeisti per convenienza 
Alla conclusione del secondo conflitto mondiale la costruzione dell’unità europea era ritenuta un efficace contributo al consolidamento della pace. Persino gli inglesi erano di questo avviso, ma nel contempo intenzionati ad acquisire nel merito uno status differenziato. Come ebbe a dire Winston Churchill, bisognava che francesi e tedeschi dessero vita agli Stati Uniti d’Europa, con il Regno Unito e magari gli Stati Uniti d’America nel ruolo più defilato di «amici e sponsor»[2]
Quando poi, nel 1957, Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Germania diedero vita alla Comunità economica europea (Cee), gli inglesi vollero dedicarsi a un diverso progetto, più adatto ad assicurare loro una posizione egemonica.
Ispirarono la nascita dell’Associazione europea di libero scambio (Efta), destinata a promuovere lo sviluppo di una zona di libera circolazione per le merci, ma non anche l’unione doganale, con Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia e Svizzera[3]. L’unione doganale avrebbe infatti comportato tariffe comuni nei rapporti con i Paesi terzi, e questo avrebbero impedito di beneficiare oltre dei prezzi di favore nell’importazione di prodotti agricoli dai Paesi del Commonwealth, nonché imposto di attenuare le misure protezionistiche a tutela della produzione industriale interna. 
Prima o poi, però, Londra fu indotta a cambiare idea: non tanto per il maturare di idealità finalmente in linea con quelle alimentate sul Continente, quanto piuttosto per una fredda analisi dei costi e dei benefici dell’integrazione europea. Il sostegno statunitense alla Cee, vista come un baluardo contro il blocco sovietico, preludeva infatti a un isolamento del Regno Unito. La sua economia, inoltre, era sempre più dipendente dai Paesi europei, risultando pertanto danneggiata dai costi riconducili all’unione doganale cui questi ultimi stavano dando vita. Di qui la candidatura avanzata nel 1961, a cui seguirono negoziati che vennero però fatti fallire per l’opposizione della Francia. Per l’allora Presidente della Repubblica Charles de Gaulle si trattava di una reazione al rischio che il Regno Unito potesse aumentare l’influenza statunitense in area europea. Nello stesso periodo Washington aveva non a caso rilanciato l’idea di una cooperazione commerciale transatlantica, da sviluppare attraverso una sorta di Titp ante litteram[4]
Bisognerà così attendere l’uscita di scena del Generale De Gaulle, per giungere all’adesione del Regno Unito alla Comunità economica europea. Il che avvenne nel 1973, con la benedizione del nuovo Presidente della Repubblica francese: Georges Pompidou. 
Antieuropeisti per vocazione 
L’adesione del Regno Unito alla costruzione europea venne fortemente voluta dal Partito conservatore dell’allora Premier Edward Heath. A quell’epoca il fronte degli euroscettici era concentrato nel Partito laburista, la cui ala sinistra temeva che la Cee potesse rappresentare una sorta di «blocco protezionista» destinato a «impoverire i lavoratori»[5]. Di qui la promessa, formulata nel corso della campagna elettorale del 1974, di convocare un referendum sull’appartenenza inglese alla costruzione europea, che in effetti si tenne l’anno successivo. 
In quell’occasione gli elettori vollero confermare la scelta europeista, approvata dal 67,2% dei votanti.
Peraltro i giochi non erano chiusi e a riaprirli ci pensarono i conservatori di Margaret Thatcher, Premier dal 1979, convinta che l’Europa unita non dovesse svilupparsi oltre la mera «collaborazione tra Stati sovrani e indipendenti». Si trattava insomma di contrastare qualsiasi cessione di sovranità in quanto tale, ovvero di evitare il formarsi di livelli decisionali sovranazionali. Il tutto per evitare lo sviluppo di politiche sociali, così come di politiche economiche irrispettose verso i principi del libero mercato: «non abbiamo fatto arretrare le frontiere dello Stato solo per vederle reimposte a livello europeo»[6]
All’epoca in cui Thatcher giunse al potere, circa l’80% del bilancio europeo era assorbito dalla politica agricola comune, di cui il Regno Unito beneficiava limitatamente e la Francia in modo consistente. Anche per questo gli inglesi erano contributori netti, tenuti cioè a versare nelle casse europee più di quanto ricevevano, nonostante fossero tra i più poveri della Comunità. Il che conferiva particolare forza e vigore a quanto divenne il noto grido di battaglia della Lady di ferro: «I want my money back», ovvero «rivoglio indietro i miei soldi». Fu così che nel 1984 il Regno Unito strappò una concessione particolarmente vantaggiosa: il rimborso di due terzi della differenza tra le cifre versate e quelle ottenute. Una concessione in parte ancora valida[7], nonostante la spesa agricola europea si sia dimezzata, e nonostante il Paese non possa certo considerarsi povero. 
A metà degli anni Ottanta prese corpo anche lo spazio di Schengen, istituito per disciplinare la libera circolazione delle persone e la cooperazione in materia di sicurezza. Il tutto nasce su iniziativa di Benelux, Germania e Francia, poi estesa a numerosi altri Paesi anche non appartenenti all’Unione europea. Come è noto il Regno Unito ne è rimasto fuori, almeno se si escludono alcune questioni minori tutte non relative all’abolizione dei controlli alle frontiere. 
Si giunge così al Trattato di Maastricht del 1992, quello che vincola i Paesi europei a dar vita all’unione monetaria. Il Regno Unito, all’epoca guidato dal conservatore John Major, ne resta fuori, anche qui per preoccupazioni decisamente distanti da quelle manifestate all’epoca in cui l’euroscetticismo era di matrice laburista. Non a caso Londra non aderisce neppure al Protocollo sulla politica sociale allegato al Trattato di Maastricht, non condividendone le finalità: promuovere «il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro» e «una protezione sociale adeguata». 
Formule di questo tenore sono mere clausole di stile, elenchi di buoni propositi costantemente smentiti da Bruxelles, notoriamente disinteressata alle sorti dell’Europa dei diritti se questa può rappresentare un ostacolo allo sviluppo dell’Europa dei mercati.
Ciò nonostante l’ostilità inglese nei confronti delle politiche sociali europee è oramai una sorta di riflesso incondizionato, come si è visto in particolare con la cosiddetta Carta di Nizza, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea approvata nel 2000. 
A ben vedere essa non si fa carico dei diritti sociali, che proprio su pressione inglese si sono voluti ridurre a mere aspettative la cui tutela viene accordata in funzione delle disponibilità di bilancio[8]. Ciò nonostante, dopo aver contribuito a limitare la portata della Carta, il Regno Unito ha preteso di specificare in un Protocollo allegato ai Trattati europei che mai potrà essere utilizzata per invalidare le sue leggi e i suoi atti amministrativi. Il tutto per volontà del Premier laburista Tony Blair, che in questo modo chiarì il senso della svolta neoliberale impressa al suo partito: alimentare la tradizionale avversione conservatrice nei confronti dell’Europa sociale, e più in generale dei vincoli al libero mercato. 
Il ricatto 
Dall’uscita di scena di Tony Blair molte cose sono accadute, a partire dalla crisi economica e finanziaria dalla quale l’Europa pretende di uscire con una perversa commistione di austerità e inasprimento delle politiche neoliberali. In tutto questo l’attuale Premier, il conservatore David Cameron, dovrebbe sentirsi a proprio agio, ma non è così. Dal suo punto di vista l’Europa non solo deve occuparsi esclusivamente di mercato unico, ma deve farlo restituendo nel contempo sovranità agli Stati nazionali. 
Qui Cameron sembra attento all’Europa dei diritti, ma si tratta di un equivoco alimentato ad arte. Per il Premier inglese la cessione di sovranità al livello europeo produce decisioni assunte in modo non democratico, ma la soluzione non è la costruzione dell’unità politica europea oltre a quella economica: si ritiene che manchi del tutto un demos europeo, motivo per cui il livello delle decisioni partecipate non può che essere quello nazionale. Di qui l’idea, espressa durante un discorso del 2013, del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Europa unita, da tenersi però solo dopo avere verificato la possibilità di modificare l’Unione secondo i desiderata inglesi[9]
Queste vicende hanno fatto da sfondo al Consiglio europeo del 18 e 19 febbraio scorso, nel corso del quale si sono decise alcune concessioni al Regno Unito[10], quelle reputate da Cameron sufficienti a far ritenere vantaggiosa la permanenza nell’Unione europea.
Le concessioni principali ruotano attorno al riconoscimento dell’Europa a due velocità, esplicitato nella formula per cui vi sono «diversi percorsi di integrazione a disposizione dei diversi Stati membri», i quali «non obbligano a puntare a una destinazione comune». Di qui la precisazione che le unioni monetaria e bancaria, a cui il Regno Unito non prende parte, dovranno rispettare i diritti e le competenze di Londra, soprattutto quelle in tema di vigilanza del sistema creditizio. E difatti l’Europa non potrà vigilare sugli istituti finanziari della City, una vera e propria enclave eretta a protezione di uno dei maggiori paradisi fiscali del pianeta, all’origine delle forme più oscure e aggressive di finanziarizzazione dell’economia. 
Non sono da meno le concessioni sulle politiche sociali europee, e in particolare quelle per cui gli Stati membri potranno giovarsi della libera circolazione dei lavoratori provenienti da Paesi membri, senza tuttavia riconoscere loro i medesimi livelli di welfare assicurati ai propri lavoratori: potendo discriminarli sulla base della nazionalità, graduando nel tempo l’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale. 
Come i capitali, anche i lavoratori potranno così essere attirati dal Regno Unito sulla base di regole di favore rispetto a quelle che valgono per gli altri Paesi europei: una vera e propria ipotesi di concorrenza sleale. Il tutto completato da una norma di chiusura per cui saranno previste «misure volte a limitare flussi di lavoratori di ampiezza tale da produrre effetti negativi». 
Il doppio gioco 
Il Premier inglese ha presentato queste concessioni come un’importante vittoria ottenuta dopo estenuanti trattative. Per molti commentatori si tratta invece di una mera operazione di facciata, buona solo per consentire a Cameron di chiedere ai suoi elettori di votare sì al referendum sulla permanenza nell’Unione. Come abbiamo visto, se non altro dal punto di vista simbolico, quanto ottenuto dal Regno Unito ha invece una valenza notevole. Peraltro l’Unione europea non ha per questo dovuto rinnegare se stessa: le concessioni a Cameron sono decisamente in linea con la sua ispirazione neoliberale, e anzi consentono a Bruxelles di farla emergere addebitando a Londra modi e tempi che altrimenti non si sarebbero potuti giustificare. 
Ciò che viene ora presentato come un’eccezione, finirà infatti per imporsi come regola. Per restare competitive, le piazze finanziarie europee dovranno adattare l’unione bancaria agli standard più spregiudicati ammessi nel Regno Unito. Similmente, i Paesi più ricchi spingeranno per contrastare il cosiddetto turismo del welfare, chiedendo di incrementare le discriminazioni dei lavoratori in base alla loro nazionalità. E prima o poi finiranno per condividere il punto di vista inglese sulle politiche sociali: quello per cui esse producono solo costi d’impresa, come sostenuto in particolare riguardo alla direttiva sull’organizzazione dell’orario di lavoro[11].
E che dire dell’Europa a due velocità, per molto tempo ritenuta uno schema utile a tutelare i Paesi più deboli: consentendo loro tempi più umani per ridurre debito e deficit e dunque l’occasione per non morire di austerità. Ora questo schema è stato finalmente formalizzato, ma come strumento asservito a finalità opposte. Serve infatti per tutelare i privilegi dei Paesi più zelanti nell’adottare schemi neoliberali, da premiare perché anticipano sviluppi destinati a riguardare l’Unione nel suo complesso. 
A queste condizioni non dovrebbe essere il Regno Unito a minacciare di andarsene, bensì i Paesi la cui tradizione costituzionale, incompatibile con l’Europa dei mercati, reclama la costruzione dell’Europa dei diritti. I Paesi nei quali le consultazioni referendarie servono per promuovere la democratizzazione dell’Europa, non la sua riduzione a mercato unico. Tanto più che se questi Paesi davvero lasciassero l’Unione, produrrebbero danni inestimabili innanzi tutto ai fautori dell’Europa dei mercati. 

NOTE

[1] European Union Referendum Act, approvato il 14 dicembre 2015. 

[2] Cfr. il discorso tenuto all’Università di Zurigo il 19 settembre 1946. 

[3] Al momento fanno parte dell’Efta solo quattro Stati, tutti non appartenenti all’Unione europea: Norvegia, Svizzera, Islanda e Lichtenstein. 

[4] Cfr. il Trade Expansion Act del 1962, con cui il Congresso ha incaricato la Presidenza di negoziare un dimezzamento dei dazi doganali tra Europa e Stati Uniti. 

[5] The Labour Party Manifesto: Britain will win with Labour (ottobre 1974), in www.politicsresources.net. 

[6] Cfr. il discorso tenuto al Collegio europeo di Bruges il 20 settembre 1988. 

[7] Nel 2014 il Regno Unito ha usufruito di un rimborso di 6,066 miliardi di Euro, contribuendo così per 11,34 miliardi al bilancio UE (ultimi dati disponibili forniti dalla Commissione europea). 

[8] Cfr. A. Somma, C’è spazio in Europa per il costituzionalismo antifascista? (22 ottobre 2015), in http://temi.repubblica.it/micromega-online. 

[9] Discorso tenuto nella sede londinese di Bloomberg il 23 gennaio 2013, in https://www.gov.uk. 

[10] Consiglio europeo del 18 e 19 febbraio, Conclusioni (Allegato I), in www.consilium.europa.eu. 

[11] Cfr. C. Volkery, Was Brüssel den Briten wirklich bringt (6 febbraio 2013), in www.spiegel.de. La direttiva è la n. 88 del 4 novembre 2003.

Fonte: MicroMega online 

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