di Giuseppe Di Lello
A trent’anni dall’ apertura a Palermo del primo maxiprocesso a Cosa nostra, con una opportuna puntualità è uscito in questi giorni il libro di Antonio Calabrò I mille morti di Palermo (Mondadori, pp. 256, euro 18,50) che ripercorre, come specifica il sottotitolo, la storia di «uomini, denaro e vittime nella guerra di mafia che ha cambiato l’Italia». La storia di una tragica stagione, trasfusa in quel processo, voluto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che ne furono i principali autori con una sentenza istruttoria di oltre quaranta volumi, aveva bisogno di essere raccontata in dettaglio anche come atto di riparazione verso le tante vittime, servitori dello Stato, imprenditori coraggiosi, semplici cittadini che, per non essere «eccellenti», si sono perse nelle nebbie dell’oblio.
In quel tempo il paese, angosciato per un terrorismo politico, rosso e nero, che seminava paura e morte con stragi e omicidi, non percepì appieno la gravità della contemporanea mattanza attuata dalla mafia a Palermo e dintorni, con un numero di morti di gran lunga superiore a quello fatto dalle Br, da Prima linea, dai Nar e dalle tante sigle affini. Quegli omicidi siciliani sembravano episodi di criminalità «regionale», residuale, non assimilabili per valenza destabilizzante a quelli «politici» che lo Stato era impegnato a contrastare nel resto del paese. Ed invece questa sottovalutazione aiutava a far crescere ed espandere la potenza economica e militare di una mafia che si radicava sempre più nelle strutture dello Stato e che, in definitiva, costituiva un pericolo per l’assetto democratico del paese, grave quanto quello del terrorismo: non a caso, poi quando ci si rese conto, si fu costretti a parlare di «terrorismo mafioso».
Calabrò a quel tempo lavorava a «L’Ora», quotidiano di inchiesta della sera, di sinistra, forse l’unico giornale in Italia che cercava di dare una lettura di quei delitti che non fosse solo da «cronaca nera» ma li collegasse al sottostante intreccio politico-mafioso: opera di denuncia per la quale subiva attentati dinamitardi e vedeva anche scomparire nel nulla il suo cronista Mauro de Mauro.
Tra il migliaio di morti, moltissimi erano anonimi mafiosi, ma c’erano anche uomini che in Sicilia rappresentavano le istituzioni dello Stato, i cui nomi sono troppo noti per essere citati: il presidente della regione, il prefetto di Palermo, il segretario regionale del Pci, il segretario provinciale della Dc, il procuratore della Repubblica, il consigliere istruttore, e poi ancora poliziotti, carabinieri, magistrati, giornalisti, imprenditori, militanti politici e persino ignari passanti. Una sequenza di morti che Calabrò racconta con la puntigliosità del cronista, ma inquadrandola sempre all’interno di una strategia di disarticolazione dei presidi di resistenza al potere mafioso, che era sì funzionale alla sopravvivenza di Cosa nostra, ma era messa anche al servizio di pezzi del sistema di potere politico: quel «terzo livello» che per Giovanni Falcone non implicava subordinazione gerarchica della mafia alla politica o viceversa, ma solo una «convergenza di interessi» che con lo stesso atto criminoso rafforzava mafia e politica.
L’autore spende parole di grande compassione per le troppe vittime innocenti della mafia, imprenditori e giornalisti in primo luogo, «colpevoli» solo di non essersi piegati alle richieste estorsive i primi e di aver dato fastidio con i loro articoli i secondi. Vi è, però, pietà anche per molte delle stesse vittime mafiose della mafia e in modo particolare per i loro familiari: in un’epoca di giustizialismo forcaiolo non è cosa di poco conto. Leggendo il presente, il libro si chiude con pagine di cauto ottimismo, pensando a tutto ciò che è cambiato in meglio, con una mafia che non semina più morti, con gli ingenti patrimoni sequestrati, con i boss catturati e condannati, con una Chiesa sempre più attenta a non offrire sponde ai mafiosi e con Sergio Mattarella e Piero Grasso, due siciliani simboli della lotta alla mafia, ai vertici dello Stato.
Certo per Calabrò la mafia potrebbe essersi inabissata in attesa di tempi migliori, per ricominciare «con nuovi legami politici ed economici, il grande gioco degli affari», ma penso che se si riuscisse a disarticolare l’intreccio nazionale tra corruzione, affari illeciti e potere economico, all’interno del quale prosperano «anche» le mafie, quei tempi migliori potrebbero non venire mai più.
Fonte: il manifesto
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