di Carlo Lania
«L’Europa riuscirà a salvarsi?» si è chiesto ieri il sito di Le Monde mettendo in fila una serie di questioni scoperchiate dalla crisi dei migranti: divisioni tra Paesi fino a ieri amici — come Francia e Belgio o Austria e Germania -, invettive tra Stati e mancanza di solidarietà verso la Grecia, soprattutto da parte dei paesi dell’Est. Per poi concludere sottolineando amaramente come l’incapacità dimostrata nel gestire le centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini in fuga dalla guerra rischi di rappresentare la «morte clinica dell’Europa».
Per avere una risposta alla domanda del giornale francese, per sapere se l’Unione europea è davvero arrivata alla fine oppure no, bisognerà attendere il 7 marzo, giorno in cui i leader dei 28 incontreranno di nuovo il premier turco Ahmet Davutoglu al quale chiederanno ancora una volta di mettere fine alle partenze dei profughi.
La medicina alla quale Bruxelles si affida nella speranza di salvare Schengen e l’Ue è infatti la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. «Un crash test per le istituzioni europee», ha definito l’incontro il commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos, lasciando intendere così l’importanza data all’appuntamento. Proprio per preparare il vertice il presidente del consiglio Ue Donald Tusk — che con la cancelliera Merkel è tra i più convinti sostenitori dell’alleanza Ue-Turchia — dall’1 al 3 marzo compirà una missione che lo porterà a Vienna, Lubiana, Zagabria, Skopje e Atene — le capitali della rotta balcanica — per poi incontrare anche il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg e il direttore di Frontex Fabrice Leggeri. L’obiettivo, o meglio la speranza, è quella di arrivare il 7 marzo potendo mostrare un’Europa unita nella risposta da dare alla crisi dei migranti, cosa che al momento non è.
La medicina alla quale Bruxelles si affida nella speranza di salvare Schengen e l’Ue è infatti la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. «Un crash test per le istituzioni europee», ha definito l’incontro il commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos, lasciando intendere così l’importanza data all’appuntamento. Proprio per preparare il vertice il presidente del consiglio Ue Donald Tusk — che con la cancelliera Merkel è tra i più convinti sostenitori dell’alleanza Ue-Turchia — dall’1 al 3 marzo compirà una missione che lo porterà a Vienna, Lubiana, Zagabria, Skopje e Atene — le capitali della rotta balcanica — per poi incontrare anche il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg e il direttore di Frontex Fabrice Leggeri. L’obiettivo, o meglio la speranza, è quella di arrivare il 7 marzo potendo mostrare un’Europa unita nella risposta da dare alla crisi dei migranti, cosa che al momento non è.
Non è la prima volta che Bruxelles si appella ad Ankara. Lo ha già fatto l’anno scorso firmando alla fine di novembre un accordo che prevedeva lo stanziamento di 3 miliardi di euro alla Turchia (dove si trovano già 2,6 milioni di siriani) che avrebbe dovuto allestire nuovi campi per i profughi migliorando le condizioni di quelli già esistenti. In aggiunta ai soldi, Bruxelles si è detta disponibile alla liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi, nonché a riprendere il processo di avvicinamento all’Ue e a inserire la Turchia nella lista dei paesi sicuri.
Va detto che in questi mesi nessuno ha fatto ciò che aveva promesso e che solo ultimamente sembra essere arrivato i via libera ai finanziamenti. L’incontro del 7 servirà comunque proprio a questo, a ricordare a Davutoglu gli impegni presi e a sollecitarlo a fermare i migranti con tutti i mezzi. Sapendo però che anche il premier turco potrebbe mettere sul piatto nuove e più esigenti richieste, sia dal punto di vista economico che politico.
La cosa drammatica è che nessuno sembra preoccuparsi della sorte dei profughi. Impedire loro di arrivare in Europa risolve un problema a Bruxelles ma rischia di mettere seriamente in pericolo le loro vite. Dall’inizio dell’anno fino al 15 febbraio scorso le autorità turche hanno fermato 8.550 migranti e arrestato 19 scafisti, stando a quanto riferito all’agenzia Ansa da fonti diplomatiche. Il modo in cui queste persone vengono trattate lo ha descritto a dicembre Amnesty international, che in un rapporto ha denunciato come centinaia di migranti e richiedenti asilo bloccati al momento della partenza verso la Grecia siano stati trasferiti in centri di detenzione dove sono stati maltrattati e, in alcuni casi, rimpatriati forzatamente in Siria e Iraq. Amnesty riporta anche alcune testimonianze secondo le quali i profughi sono stati picchiati e ammanettati. «La cooperazione tra Ue e Turchia in relazione alle migrazioni dovrebbe cessare finché queste violazioni non saranno oggetto di indagine e si concluderanno», ha chiesto l’organizzazione. Violenze che non valgono solo per i migranti, ha ripetuto tre giorni fa Amnesty ricordando come dalle elezioni dello scorso mese di giugno in generale nel Paese «la situazione dei diritti umani si è deteriorata notevolmente».
Fino a oggi, però, al di là di una serie di generiche dichiarazione sulla necessità di rispettare i diritti umani, Bruxelles non è andata. Né sembra intenzionata a chiedere ad Ankara impegni precisi sul modo in cui verranno trattati i migranti fermati. Rigirando allora la domanda posta dal sito di Le Monde, viene da chiedersi se un’Europa così non sia già morta.
Fonte: il manifesto
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