di Francesca Lacaita, Alberto Soave e Nicola Vallinoto
Non sprecheremo troppe parole per descrivere la costruzione europea che si sta sfaldando: i fatti, evidenti quanto eloquenti, sono sotto gli occhi di tutti. Una cosa però la diciamo: le involuzioni a cui assistiamo colpiscono specificamente determinati elementi del progetto europeo, che si potrebbero sussumere nella categoria dell’“Europa dei cittadini”. L’innalzamento di muri e di barriere con cui s’intende rispondere al dramma dei profughi richiama i tempi oscuri di non molti decenni fa, e che gli europei credettero di lasciarsi alle spalle con la caduta del muro di Berlino.
La crisi del sistema Schengen tocca un aspetto tra i più visibili e “vissuti” dell’integrazione europea, assieme alla moneta unica.
Del resto non è mancato chi dalla moneta unica voleva espellere un intero paese, la Grecia, quello più duramente provato dalle ricette austeritarie “europee”, e al quale l’intero consesso decisionale europeo ha voluto spezzare le reni, umiliandone la volontà democratica in base al principio - adottato nei fatti, se non fatto proprio esplicitamente - che “non si può consentire che un’elezione cambi alcunché”. Questa tetragona risolutezza tuttavia, che è riuscita a piegare la Grecia, non è pervenuta nei confronti delle regressioni di democrazia e stato di diritto in Ungheria e Polonia, ed è vacillata pericolosamente nelle trattative con il Regno Unito, per trattenere il quale (evidentemente più prezioso della Grecia) nella UE si è sacrificato il principio di non discriminazione tra cittadini europei (peraltro già ripetutamente sottoposto a eccezioni, come nelle disposizioni transitorie imposte ai cittadini dei paesi dell’Europa del Sud e dell’Est per vari anni dopo la loro adesione alla UE, o in sentenze della Corte Europea di Giustizia quali quelle Viking e Laval).
Del resto non è mancato chi dalla moneta unica voleva espellere un intero paese, la Grecia, quello più duramente provato dalle ricette austeritarie “europee”, e al quale l’intero consesso decisionale europeo ha voluto spezzare le reni, umiliandone la volontà democratica in base al principio - adottato nei fatti, se non fatto proprio esplicitamente - che “non si può consentire che un’elezione cambi alcunché”. Questa tetragona risolutezza tuttavia, che è riuscita a piegare la Grecia, non è pervenuta nei confronti delle regressioni di democrazia e stato di diritto in Ungheria e Polonia, ed è vacillata pericolosamente nelle trattative con il Regno Unito, per trattenere il quale (evidentemente più prezioso della Grecia) nella UE si è sacrificato il principio di non discriminazione tra cittadini europei (peraltro già ripetutamente sottoposto a eccezioni, come nelle disposizioni transitorie imposte ai cittadini dei paesi dell’Europa del Sud e dell’Est per vari anni dopo la loro adesione alla UE, o in sentenze della Corte Europea di Giustizia quali quelle Viking e Laval).
In altri termini: a rimetterci sono soprattutto i diritti di cittadinanza europea, il principio di uguaglianza tra cittadini e stati europei, l’idea di una collettività europea o transnazionale in quanto tale, lo stesso principio di sovranità popolare, sia a livello nazionale, in modo più o meno palese a seconda dei paesi, sia a livello europeo, dove non si è mai affermato e ora sembra più lontano che mai. In che misura tutto questo è il frutto avvelenato di una lunghissima crisi che ha dato fiato a nazionalismi e populismi, in che misura corrisponde invece alla visione che hanno le attuali classi dirigenti europee della “buona società”? È nella risposta implicita a questi interrogativi che vanno considerati i silenzi, la confusione, la complicità, lo sgomento di tanti europeisti davanti a questo stato di cose.
Da federalisti sappiamo che non si potrà avere una democrazia europea finché l’UE rimarrà fondamentalmente intergovernativa, finché la parola “Europa” o “Bruxelles” rimanderà in primo luogo a un consesso di politici che rispondono ai rispettivi elettorati nazionali e decidono per tutti in base al proprio peso specifico, del proprio clout, delle proprie abilità e del vantaggio dei rapporti di forza, dietro la retorica delle intese e dei compromessi. Quel che appare oggi come un’evoluzione dell’integrazione europea va in realtà nel senso di quel “federalismo post-democratico degli esecutivi” di cui ha scritto Habermas, in cui gli stati sono effettivamente subordinati a un piano sovranazionale sotto la pressione della logica emergenziale, ma senza nemmeno la parvenza di una ricerca di legittimazione democratica, spesso con l’effetto di rappresentare le élite strette fra loro in contrapposizione ai propri elettori trattati da eterni minorenni. Da federalisti sappiamo anche che un’Europa della solidarietà sociale sarà solo una parola finché i vari stati europei, con i loro cittadini, rimarranno solo degli “altri” con cui competere secondo le logiche di potere dominanti.
D’altro canto, non si giungerà a uno stato accettabile di democrazia europea limitandosi a trasferire sovranità dallo stato nazionale al piano superiore senza una corrispondente riappropriazione della sovranità popolare a livello europeo. Proprio perché le politiche neoliberali di per sé svuotano i processi democratici e impoveriscono la qualità della democrazia già a livello di stato nazionale (e stendiamo un velo pietoso sul livello subnazionale), chi vuole “più Europa” ha il dovere di affrontare seriamente la questione della sovranità popolare e della democrazia a livello europeo, senza nascondersi dietro le figure (tanto amate dall’establishment) del “tecnico”, del “saggio”, nonché del “padre fondatore” - a meno di non voler così esprimere una precisa posizione ideologica e “di parte”. Allo stesso modo, non si può reclamare “più Europa” senza prendere posizione sulle implicazioni sociali e sull’impatto in termini di democrazia che hanno avuto o avrebbero le pietre miliari dell’attuale integrazione economica europea: dal Patto di Stabilità al Fiscal Compact, dall’unione bancaria al Superministro delle Finanze dell’eurozona. I progetti europei sono sempre stati declinati secondo determinate idee sociali e politiche; se per qualche decennio dopo la seconda guerra mondiale non è sembrato necessario pronunciarsi al riguardo, ora diventa doveroso, se si vuole parlare d’Europa e al tempo stesso convincere.
Contrariamente a quanto pensano gli euroscettici, i populisti e, per motivi diversi, le élite europee, non è vero che i popoli si scrollerebbero volentieri l’Europa di dosso per stringersi sotto le loro bandiere nazionali se solo gli fosse data la possibilità di dire la loro. Se è vero che sono cresciuti negli ultimi tempi la sfiducia e il disincanto, è anche vero che gli europei hanno mostrato di apprezzare i diritti di cittadinanza europea - diritti che non sono sorti per caso e che non erano nell’ordine delle cose, ma che hanno origine da una visione di unità europea che andava perseguita.
Se è vero che nazionalisti e neosovranisti hanno acquisito rilevanza nel discorso pubblico, è anche vero che un nuovo “altereuropeismo” sta crescendo dai movimenti sociali in ambienti e realtà poco ricettivi all’europeismo tradizionale. Si pensi solo al Regno Unito, con il movimento per l’affermazione dei diritti di cittadinanza dei migranti, o con le prese di posizione del leader laburista Corbyn e dei sindacati a proposito del referendum su “Brexit”, che danno un’accentuazione nuova a un europeismo locale tradizionalmente algido, elitario e pro-business.
Naturalmente rientrano in questo “altereuropeismo” anche formazioni come Syriza e Podemos, che sono sorte contestando le politiche delle élite europee senza tuttavia asserragliarsi nella sola dimensione nazionale e andando pure oltre il vecchio internazionalismo di sinistra. L’Europa cioè può diventare, sta diventando, una dimensione ineliminabile dell’agire politico, uno spazio transnazionale per i soggetti sociali e politici senza il quale non potrebbero realizzare appieno le loro potenzialità.
In considerazione di tutto questo, noi salutiamo con simpatia e solidarietà il movimento Diem25 lanciato nei giorni scorsi da Yanis Varoufakis. Lo salutiamo nonostante non ci piacciano alcuni toni, come le tirate del suo Manifesto contro la “burocrazia di Bruxelles” (quando tutti sanno che il potere dei “burocrati di Bruxelles” si limita a quanto conferito loro dai governi con mandati ben precisi. Un’altra cosa è ovviamente la riduzione delle questioni politiche a disposizioni tecniche o burocratiche). Noi vorremmo che ci fosse più coraggio nel rivendicare la sovranità popolare a livello europeo, accanto alla giusta valorizzazione delle sovranità a livello municipale, regionale e nazionale. E ci piacerebbe poter discutere più a fondo e in modo mirato dell’assetto che dovrebbe avere la democrazia europea. Si tratta di un nodo cruciale che non si potrà eludere ancora a lungo.
Da federalisti pensiamo che la democrazia europea non potrà realizzarsi pienamente finché non avremo il controllo sulle decisioni che vengono prese, a livello globale, da organizzazioni come l’Onu, il Wto, la Banca Mondiale e il Fmi. E’ nostro compito tentare di costruire una nuova polis inclusiva, multipolare e multilivello, a partire dal quartiere per arrivare al mondo intero, che consenta di risolvere i piccoli problemi locali e i grandi problemi globali operando una sintesi tra la democrazia rappresentativa e la democrazia partecipativa. Una sorta di "democrazia glocale" in grado di tutelare le differenze culturali e rispettare le esigenze locali e, contemporaneamente, offrire un luogo globale dove risolvere pacificamente i conflitti mondiali e dove gestire democraticamente i beni comuni dell'umanità.
Proprio perché abbiamo conosciuto le torsioni antidemocratiche dell’Europa intergovernativa, vogliamo che tutti i cittadini europei, contribuiscano a determinare in modo uguale e diretto, in quanto cittadini europei, il governo dell’UE così come degli altri ambiti. Come alcuni di noi hanno sostenuto, non è necessario immaginare il livello europeo come gerarchicamente superiore agli altri, bensì, in senso orizzontale, come un cerchio più ampio contenente gli altri cerchi che formano le varie comunità all’interno dell’Europa. Un luogo cioè dove il demos europeo può autodeterminarsi nella sua complessità, e in questo modo difende al meglio il suo diritto all’autodeterminazione nei cerchi più piccoli. Un luogo però che va costruito e difeso.
Sappiamo che non c’è nulla che neoliberisti ed elitisti, europeisti e non, ed euroscettici di ogni colore temono di più di un movimento transnazionale, europeista e popolare, in grado di coordinare realtà, idee ed esperienze che esistono in tutta Europa ma che non sono in contatto fra loro.
Ci auguriamo che Diem 25 abbia le potenzialità per realizzare un salto di qualità nella democrazia e nella cittadinanza europee, di contro alla mediocrità fondamentalmente rinunciataria di no-euro e neosovranisti, e abbia la volontà di riconoscere al demos europeo un luogo dove esercitare la sua sovranità e autodeterminazione. Da parte nostra siamo pronti a collaborare con tutti quanti vogliano democratizzare la UE nei suoi vari livelli e prendere quindi il testimone di una “Europa libera e unita” lasciatoci da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel Manifesto di Ventotene.
Fonte: Europa in movimento
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