di Gaetano Sateriale
Il documento Cgil, Cisl e Uil sul moderno sistema di relazioni industriali è innovativo o sa di stantio, come sostiene Confindustria? A me pare che contenga indirizzi che, se applicati fino in fondo, potrebbero davvero chiudere l’esperienza della contrattazione collettiva regolata dal protocollo del ’93 e aprire una stagione nuova. Vediamo i punti che si discostano maggiormente sia dalla prassi unitaria (del secolo scorso) che dalle esperienze separate (di questi ultimi 10 anni).
1. Già nella premessa, si esplicita che il nuovo sistema serve a promuovere la crescita, modernizzare il Paese e rafforzare la democrazia.
L’idea della crescita come obiettivo torna più volte nel testo, a testimoniare che il modello contrattuale proposto non si limita a tutelare il potere d’acquisto o redistribuire la ricchezza prodotta (piccola o grande che sia), ma ad aumentarla. Con questa frase si cancellano tutti gli indici di inflazione più o meno programmata degli anni novanta e i poco chiari indicatori successivi.
L’idea della crescita come obiettivo torna più volte nel testo, a testimoniare che il modello contrattuale proposto non si limita a tutelare il potere d’acquisto o redistribuire la ricchezza prodotta (piccola o grande che sia), ma ad aumentarla. Con questa frase si cancellano tutti gli indici di inflazione più o meno programmata degli anni novanta e i poco chiari indicatori successivi.
2. Sempre nella premessa, si lancia una sfida alle organizzazioni sindacali e alle associazioni datoriali ad aumentare la propria capacità di rappresentare i cambiamenti incorsi (per crisi e innovazione) nelle tipologie del lavoro e dell’impresa. Ci si propone, in sostanza, un sistema di relazioni e di tutela contrattuale in grado di essere efficace non solo sulle tipologie classiche di impresa e lavoro, ma di allargarsi alle nuove forme con cui impresa e lavoro si presentano (fino al lavoro autonomo e alle filiere dell’impresa frammentata sul territorio). Da questo obiettivo si fanno derivare le regole sulla certificazione della rappresentanza (anche datoriale), le ipotesi di partecipazione e la struttura della contrattazione descritte.
3. Per inseguire l’obiettivo di cui al punto 2, si parla subito di restringere il numero dei ccnl. Un concetto che, se sviluppato, porta da solo a una piccola rivoluzione. Perché c’è un nesso stretto tra numero e contenuti dei ccnl (una sorta di proporzione aurea) per cui il numero dei ccnl è direttamente legato al proprio grado di dettaglio: pochi contratti di settore debbono necessariamente limitarsi a forme di tutele generali; ovvero, al contrario, la specificità della tutela richiede la moltiplicazione dei contratti firmati a livello nazionale (spesso, unicamente per testimoniare l’esistenza di questa o quell’associazione di impresa).
4. Pochi ccnl che demandano a un secondo livello il compito di cogliere le specificità di azienda, di territorio, di filiera, di sito. In maniera flessibile, dice il documento, e in funzione complementare. Anche in questo caso, se le parole hanno un peso, si volta pagina, sia rispetto alla sommatoria automatica al rialzo tra ccnl e secondo livello (quando esercitato) che all’idea insostenibile della deroga come principio generale e immanente nello stesso momento in cui si firma un ccnl.
5. Nel capitolo sugli incrementi salariali, in coerenza con quanto detto in precedenza, si esplicita l’obiettivo di andare oltre la salvaguardia del salario reale e si distingue tra funzione dei minimi e una voce nuova che (anche nel ccnl) misuri gli incrementi della produttività (meglio del valore aggiunto) di settore. Il testo precisa che questa voce nuova può essere anche variabile, sciogliendo così un nodo che nel 2012 aveva impedito l’accordo interconfederale unitario sulla produttività. Questa ipotesi di struttura contrattuale lascia esplicitamente più spazio alla contrattazione di secondo livello nella funzione di definire ulteriori obiettivi diffusi di crescita della produttività e di valorizzazione del lavoro.
Certo, per passare da un documento sindacale, seppure unitario, a un accordo che sostituisca quello del ’93 c’è ancora molta strada da fare. All’inizio del percorso i sindacati hanno sicuramente “perso” tempo prezioso, per ricomporre una posizione unitaria in vista dell’apertura di un tavolo negoziale con Confindustria, speriamo che ora non ne sprechino altrettanto le associazioni datoriali.
Leggo sul Diario del lavoro (del 16 febbraio) che la nuova presidenza di Confindustria si giocherà proprio sul tema delle relazioni industriali. Speriamo non prevalga l’idea di tenere alzati i muri in attesa di un intervento del legislatore (o meglio del governo) sul sistema contrattuale. Sarebbe un errore enorme: la materia è troppo complessa per essere regolata da norme di legge in sostituzione di clausole pattuite (e da sperimentare) tra le parti. Considerando la scarsa conoscenza del tema da parte del legislatore (o meglio del governo) ne verrebbero fuori certamente grandi pasticci.
Per concludere, mi permetto di rivolgere agli addetti ai lavori una sola perplessità molto marginale. Nel documento sul moderno sistema di relazioni industriali si parla di possibile durata quadriennale dei nuovi ccnl. Altrove si sente proporre una durata annuale dei contratti. Io inviterei tutti alla prudenza: il ccnl annuale non è compatibile con lo sviluppo del secondo livello contrattuale per un problema quasi “fisico” di intasamento spazio-temporale.
La durata quadriennale introduce rischi lunghi sugli obiettivi di crescita del valore aggiunto e della produttività di settore che potrebbero portare alla necessità di anticipare le verifiche sulle quote retributive concordate e bloccare di nuovo lo sviluppo della contrattazione decentrata. Pensiamoci bene: se i “padri” delle relazioni industriali avevano deciso la durata triennale del ccnl, un motivo ci sarà.
Fonte: Rassegna sindacale
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