di Sandro Lombardini
Circa un anno e mezzo fa, nel novembre del 2014, è avvenuto negli Stati Uniti una sorta di silenzioso sisma elettorale. Le votazioni di metà mandato hanno visto un trionfo del partito repubblicano, una vittoria di proporzioni inedite nella storia dell’ultimo secolo, con la conquista di una schiacciante maggioranza in entrambi i rami del parlamento federale, nei governatorati e negli organi legislativi dei singoli stati, nonché in una pletora di amministrazioni cittadine e di altri enti locali. La spinta conservatrice ha colto in parte di sprovvista lo stesso partito democratico del presidente Barack Obama. Essa è stata curiosamente amplificata, anziché smorzata, dalle feroci lotte intestine dello schieramento repubblicano. Qui, a partire dalla sconfitta alle elezioni presidenziali del 2008, una insorgente ala autonoma, estrema e movimentista, il cosiddetto Tea Party, ha conquistato crescenti consensi avversando i vertici del partito, spesso e volentieri denunciati come collusi con il presidente grazie a un presunto complotto di tutti quanti i “plutocrati di Washington”.
Tra i miti eversivi che animano la base repubblicana è l’odio razzista nei confronti della presunta nascita africana di Obama e della sua presunta fede musulmana, un mito raccolto e coltivato pubblicamene fin dal 2011 dall’attuale candidato alla presidenza Donald Trump.
Tra i miti eversivi che animano la base repubblicana è l’odio razzista nei confronti della presunta nascita africana di Obama e della sua presunta fede musulmana, un mito raccolto e coltivato pubblicamene fin dal 2011 dall’attuale candidato alla presidenza Donald Trump.
Tra gli effetti immediati, il ribaltone elettorale ha definitivamente blindato l’ostruzionismo repubblicano sia in senato sia alla camera, paralizzando del tutto l’attività legislativa del parlamento. Ancor più pervasive e palpabili sono state le conseguenze in seno ai singoli stati e alle giurisdizioni minori, dove un rinnovato pullulare di iniziative di governatori e organi elettivi locali ha respinto, rinviato sine die, o avviluppato nel contenzioso giudiziario le principali affermazioni di politica interna della presidenza Obama, in primo luogo la legge di riforma del 2010 del sistema assicurativo sanitario (Affordable Care Act), mirante a estenderne la copertura a decine di milioni di cittadini in precedenza esclusi dalle assicurazioni sanitarie. Con un gesto di aperta sfida alla legislazione già in vigore, e con intenti discriminatori a malapena dissimulati, quasi ogni singolo governo locale repubblicano ha ricusato le sovvenzioni integrative destinate a parecchi milioni di cittadini meno abbienti, innanzitutto (anche se non esclusivamente) afroamericani.
Sebbene non esplicitamente organizzata dai vertici del partito, l’ offensiva repubblicana è apparsa però accortamente meditata e concertata in certi suoi tratti fondamentali, innanzitutto per la parte senza precedenti svolta dai cosiddetti PAC e Super PAC, i comitati di raccolta fondi, che, soprattutto nella seconda versione, possono legalmente destinare finanziamenti del tutto illimitati a finalità di natura “politica”, purché “indipendenti” da una specifica candidatura. Certe caratteristiche della normativa federale riguardante le cadenze e altre modalità di rendicontazione consentono, di fatto, ai Super PAC e ai loro donatori di celare, almeno in parte, le provenienze e le destinazioni dei finanziamenti. Soprattutto, due sentenze della Corte Suprema, stilate a stretta maggioranza dai giudici più conservatori, hanno esplicitamente equiparato, non senza suscitare scalpore, il diritto di libertà di parola, garantito agli individui dal primo emendamento della costituzione, alla libertà che esercitano le grandi società quando esprimono le proprie opinioni e preferenze politiche attraverso il veicolo dei Super PAC. Durante il solo ciclo elettorale del 2014, i Super PAC hanno fatto la parte del leone in una corsa ai finanziamenti equivalente alla cifra astronomica di oltre tre miliardi e mezzo di euro.
Per più di un verso l’esito elettorale del 2014 può evocare l’America del 1928, alla vigilia del collasso delle borse e della grande depressione economica. A quell’anno bisogna infatti risalire per trovare una così ampia maggioranza repubblicana alla camera, un’altrettanto netta egemonia parlamentare e la conquista di un così alto numero di governi statali. Anche l’enorme sperequazione dei redditi e dei patrimoni che aveva caratterizzato la società americana di quell’epoca si ripresenta oggi in termini evocativi di allora, se vista alla luce, per esempio, delle rivendicazioni espresse dal movimento Occupiamo Wall Street [Occupy Wall Street], che nel 2011 promosse grandi manifestazioni di piazza per denunciare lo strapotere del “capitalismo finanziario” ai danni del “99 per cento”, o se si pensa al sorprendente successo editoriale di recenti studi accademici sulla crescente ed estrema disuguaglianza economica, segnatamente statunitense, quali i lavori di Paul Krugman, Joseph Stiglitz e Thomas Piketty. Più estremo di allora, semmai, è stato l’astensionismo, il più elevato dal 1942, quando tuttavia lo scarso afflusso alle urne, nel corso di un difficile anno di guerra, poté essere interpretato come un silenzio-assenso plebiscitario in favore dell’allora presidente Roosevelt.
La campagna presidenziale di Bernie Sanders è maturata, abbastanza rapidamente, dopo la batosta elettorale del 2014, per essere annunciata quasi sottovoce nell’aprile successivo. Un ostinato silenzio della grande stampa e della televisione ne ha oscurato per molti mesi gli straordinari punti di forza. Nato nel 1941 e cresciuto nel quartiere di Brooklyn, a New York, in una famiglia ebraica poco osservante, Bernie (Bernard) Sanders è, ormai da decenni, un rappresentante del piccolo stato del Vermont nel parlamento statunitense, dapprima alla camera, quindi al senato, dove è stato eletto e rieletto più volte come “indipendente”, dalle simpatie apertamente progressiste. Contrariamente a Hillary Clinton, la favorita del partito democratico (già perdente contro Obama nelle elezioni primarie 2008), bersagliata impietosamente per la presunta disinvoltura con cui ha gestito le sue e-mail segrete o riservate mentre era ministro degli esteri, Sanders ha potuto tenersi del tutto riparo dai riflettori e dalle polemiche della campagna presidenziale, per costruirsi a sua volta una campagna ricca di elementi originali e accattivanti. Innanzitutto i grandi comizi, oggi spesso paragonati dai commentatori a teach-in, o dibattiti pubblici, dal sapore quasi sessantottardo, contenenti un messaggio programmatico semplice ma sistematicamente ragionato e dai contenuti apertamente rivendicativi. Sanders stesso ha le fattezze e il portamento, per così dire, dell’eterno contestatario, i capelli bianchi disordinati, l’abbigliamento trasandato: l’opposto esatto di ogni ossequio alle seduzioni della moda e del denaro.
Ma parte integrante della retorica politica di Sanders è, in secondo luogo, un tipo di rapporto del tutto particolare con la sua base di sostenitori. L’aperto messaggio di rifiuto dei Super PAC, visti come cavalli di Troia di un “sistema corrotto di finanziamento della politica”, trova un riscontro quanto mai concreto nelle modalità di raccolta di fondi. La base elettorale di Sanders s’incontra, si attiva, e si organizza a partire da innumerevoli rivoli di comunicazione su internet, all’intersezione di una miriade di iniziative minute di organizzazione spontanea e di finanziamenti di taglia minima. Già affiorante nel 2004 durante la sfortunata candidatura presidenziale di Howard Dean, che in seguito la promosse apertamente da coordinatore nazionale del partito democratico, la potenza capillare e massiccia dei canali informatici ha svolto una parte notevolissima nell’assicurare il successo elettorale di Obama nel 2008. Nel caso di Sanders, un esercito senza precedenti di almeno un milione e mezzo di incrollabili internauti non soltanto ha garantito l’istantaneo decollo di una massiccia campagna di sottoscrizioni, che finora non conosce rallentamenti, ma sembra in grado di alterare profondamente – forse reimpostandoli – i rapporti tra l’apparato del partito democratico, tutto schierato a favore di Hillary Clinton, e la base militante del partito. Nei continui appelli ai suoi sostenitori di attuare una “rivoluzione politica”, Sanders allude innanzitutto, sia pure lasciando nel vago modi e tempi, alla prospettiva di riconquistare il terreno perduto dal partito democratico nel 2014 grazie a una massiccia riscossa non soltanto nelle elezioni parlamentari, ma anche e soprattutto in quelle parlamentari previste per il 2016 e oltre.
E tuttavia, la stessa adesione di Sanders, da sempre di sinistra, o “socialdemocratico”, al partito democratico appare strumentale: l’unico mezzo, di fatto, a sua disposizione per evitare la sorte di totale ostracismo politico e mediatico riservata alle fallimentari candidature presidenziali di Ralph Nader nel 2004 e nel 2008. Per molti versi il rapporto tra la campagna di Sanders e il partito democratico si è già rivelato problematico e contenzioso, né viene favorito dal fatto che la campagna di Sanders si è finora astenuta dal contribuire finanziariamente alle casse del partito, contrariamente alle abitudini della fedele e metodica Clinton. Nonostante le aperte simpatie manifestate per Sanders tra gli iscritti a molte organizzazioni sindacali o di altro genere vicine al partito democratico, la categoria che maggiormente connota la base dei sostenitori più entusiasti è di tipo demografico: sono i giovani e i giovanissimi, quasi nove elettori su dieci tra chi ha meno di trent’anni, quasi sei su dieci tra chi ne meno di quarantacinque. Sia nelle primarie dell’Iowa sia in quelle del New Hamsphire, Sanders ha cercato i consensi di chi non ha mai votato fino a oggi non solo per ragioni di età, ma anche perché politicamente indipendente, non apertamente schierato.
Il sostegno energico dei giovani (o almeno dei non anziani) è insieme la forza e la debolezza della campagna di Bernie Sanders. Pressoché assenti alle votazioni del 2014, presenti in misura inferiore al 20 per cento nelle elezioni del 2008, i giovani acclamano Sanders sui social media e negli innumerevoli, affollatissimi comizi. Su internet ne riscoprono agevolmente gli ardenti e coraggiosi discorsi parlamentari del passato, anche quando svolti in un’aula deserta o quasi. I giovani hanno assicurato a Sanders i clamorosi successi alle primarie nell’Iowa e, soprattutto, nel New Hampshire. Ne hanno già diffuso il messaggio di entusiasmo e di speranza al di fuori dei confini degli Stati Uniti: con un intraducibile gioco di parole, essi sentono the Bern, “s’infiammano per Bernie”, secondo il fortunato slogan della campagna ormai onnipresente. Tanto fra la popolazione bianca quanto fra quella afroamericana, sui giovani si gioca la vittoria o la disfatta di un ardito esperimento elettorale.
Fonte: doppiozero.com
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