di Claudia Zunino
In un esile volume edito da Adelphi nel settembre 2015 sono stati ripubblicati due scritti senili di Isaiah Berlin, La ricerca dell’ideale e Un messaggio al Ventunesimo secolo, che dà il titolo alla breve raccolta. Entrambe le tesi possono essere considerate parole testamentarie, composte dall’autore al tramonto della propria vita e per occasioni istituzionali e incensanti, quali il conferimento del Premio Internazionale Senatore Giovanni Agnelli del 1988 e la laurea ad honorem in Giurisprudenza dalla University of Toronto nel 1994. Isaiah Berlin morirà tre anni dopo, all’età di ottantotto anni. La critica italiana ha accolto questa ripubblicazione con gentile e generale apprezzamento.
L’intonazione dei due testi è quella di un uomo che ha da profetare ai propri simili una verità conquistata faticosamente, lungo il dispiegarsi di un secolo segnato dalle guerre, dai totalitarismi e dalla penosa percezione del collassare della storia.
Ma soprattutto dalle conseguenze del marxismo, il maggiore responsabile, come si legge ne La ricerca dell’ideale, di gulag, lager e genocidi di massa. Una voce enfaticamente accorta ci invita a diffidare di certi eccessi ideologici e radicali, affermando che assai raramente i valori supremi dell’umanità sono conciliabili fra loro e i fanatismi vanno redarguiti il più possibile perché troppo spesso inclini a tracimare in incontrollate esuberanze. La libertà, l’eguaglianza e la fratellanza sono per Isaiah Berlin, a ben guardare, incompatibili fra loro, e il Novecento ha fatto da milieu a violenze di massa senza precedenti a causa soprattutto di simili integralismi ideologici.
Ma soprattutto dalle conseguenze del marxismo, il maggiore responsabile, come si legge ne La ricerca dell’ideale, di gulag, lager e genocidi di massa. Una voce enfaticamente accorta ci invita a diffidare di certi eccessi ideologici e radicali, affermando che assai raramente i valori supremi dell’umanità sono conciliabili fra loro e i fanatismi vanno redarguiti il più possibile perché troppo spesso inclini a tracimare in incontrollate esuberanze. La libertà, l’eguaglianza e la fratellanza sono per Isaiah Berlin, a ben guardare, incompatibili fra loro, e il Novecento ha fatto da milieu a violenze di massa senza precedenti a causa soprattutto di simili integralismi ideologici.
Berlin ci invita dunque ad avere una visione politica pluralista e pacificante, e soprattutto ad essere il più possibile inclini ai “compromessi, agli accordi e ai baratti”. A costo, evidentemente, di sacrificare il proprio credo, e insieme a questo l’intero sistema di valori che fa di ogni singolo individuo il perno essenziale per una collettività organizzata. Un invito insomma al relativismo etico, nonostante l’inevitabile mortificazione del pensiero critico a cui un simile asservimento porterebbe giorno dopo giorno.
E a cui sembrerebbe aver portato. Una consuetudine all’accomodamento, all’accettazione che impigrisce il pensiero, al dissolversi nel nulla di qualsiasi scandalo. Questo è un fenomeno sociale a cui assistiamo quotidianamente. La luce si fa diffusa e non c’è contrasto che sopravviva ai riflettori dello spettacolo giornaliero. Un esempio fra mille delle ultime settimane, i 45mila euro offerti dal governo italiano alle vittime dei pestaggi della caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova, in cambio del ritiro dell’accusa nonché la revoca del ricorso alla Corte Europea per i diritti dell’uomo. Denaro in vece di giustizia. La notizia è stata data dai quotidiani: acquisita, non ha avuto seguito né una particolare reazione dell’opinione pubblica.
Una filosofia accomodante
E accomodante sembra proprio essere questo libello testamentario confezionato dalla casa editrice Adelphi. Non è certo la prima volta che Isaiah Berlin si sofferma sul concetto di disarmonia insita nel sistema dei valori umani. Anzi, la teoria del pluralismo è uno dei temi per cui il filosofo si è più speso nel volgere degli anni. In uno dei tanti scritti dedicati al concetto di libertà (Due concetti di libertà, in Libertà, Feltrinelli, 2005), Berlin già vedeva nella moltitudine dei fini umani una dissonante concentrazione di forze in “perpetua rivalità” l’una con l’altra. Ma un passo ulteriore del ragionamento, in questo saggio del 1958, portava a riflettere su un punto nodale che sembra invece mancare negli ultimi scritti: “Alla fine gli uomini scelgono tra i valori ultimi, e fanno le scelte che fanno perché la loro vita e il loro pensiero sono determinati da categorie e concetti morali fondamentali che sono parte, almeno per ampie regioni spaziali e temporali, del loro essere, del loro pensiero, del senso della propria identità; sono parte di ciò che li rende umani”. E imprime ancora più forza a questa idea riportando una frase dell’economista austriaco Joseph Schumpeter, il quale affermava che “riconoscere la validità relativa delle proprie convinzioni, e tuttavia combattere inflessibilmente per esse, è ciò che distingue l’uomo civile dal barbaro”. Riconoscere la pluralità politica non significa abbandonarsi ai fluidi relativistici, ma anzi dovrebbe dare più slancio al bisogno d’affermazione, e dunque di azione e resistenza. La necessità di scegliere ogni giorno, il bisogno di scegliere in linea con un proprio credo, con la propria identità, si riduce nelle parole testamentarie a una condanna alla scelta: “Noi siamo condannati a scegliere, e ogni scelta può comportare una perdita irreparabile”. Questa traslazione concettuale dal “bisogno/necessità di scelta” a una “condanna alla scelta”, trasforma in pena ciò che dovrebbe essere una urgenza. Il passo successivo di una simile linea di pensiero è sentire il libero arbitrio come una fatica (messaggio tra l’altro più che evidente in molti spot pubblicitari di questo inizio 2016). E il pericolo ben visibile è l’avvelenamento della democrazia.
In ultima analisi Berlin esorta ad avere timore delle idee, in quel luogo che dovrebbe essere destinato al coraggio delle idee.
Il regime avvilente della “tolleranza culturale”
Questo invito alla moderazione spezza, mi pare, una sana pratica alla resistenza e concede troppo spazio a quell’avvilente usanza che il filosofo e storico dell’arte francese Georges Didi-Huberman, parlando di Pier Paolo Pasolini, chiama “regime generalizzato della tolleranza culturale”. Nel 2010 è stato pubblicato il libro Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze di Didi-Huberman (Bollati Boringhieri, 2010). È un testo di una complessità netta e di manifesta luce. Parla del coraggio e della forza che nutrono il pensiero critico. Come composti in contrappunto, i capitoli si dispiegano in un susseguirsi di domande, frutto di un pensiero critico scettico e negativo, e di tentate repliche che ritrovano dialetticamente in se stesse una prospettiva aperta, di speranza e desiderio. Come se l’autore si chiedesse e chiedesse al lettore:
- Vedete nella nostra società solo 1) Inferni? soffocanti, o non vi pare di scorgere il balenio di certe 2) Sopravvivenze insepolte?
- Stiamo davvero andando incontro a 3) Apocalissi? definitive, o la forza dei 4)Popoli opporrà infine una qualche resistenza?
- Il tempo, è vero, provoca 5) Distruzioni? continue, eppure non vi pare che alcune 6) Immagini resistano portando nascoste in sé segrete resistenze, forti di sopravvivere anche se attraversate dalle peggiori morbosità dell’essere-uomo?
Pensiero critico o coscienza infelice?
L’autore denuncia la radicale divergenza tra il pensiero critico ripiegato su se stesso, che anziché mordere si avvilisce, ovvero una “coscienza infelice” apocalittica e sbaragliata, e il pensiero critico che nonostante la sofferenza del trovarsi sempre in disparte non rinuncia all’azione e al movimento del proprio essere. Didi-Huberman tocca, critica e sviluppa i pensieri cruciali di una ricca schiera di intellettuali del Novecento: Pier Paolo Pasolini, Giorgio Agamben, Walter Benjamin, Aby Warburg, Hannah Arendt, Victor Klemperer, Maurice Blanchot, Georges Bataille.
Una metafora costante si manifesta per variazioni tra le pagine, una immagine emblematica costruita sul contrasto di luci e oscurità: da una parte i fari abbacinanti della cultura di massa che illuminano il palcoscenico della società dello spettacolo; e dall’altra, apparenze quasi impercettibili, le lucciole che sopravvivono, che resistono in disparte con costante intermittenza, organizzate in piccole comunità o solitarie, come “fugaci bagliori nelle tenebre”. La lingua di Dibi-Huberman è poetica e tragica, forse persino epica, e la sensazione che ne ha il lettore è di essere sempre sul punto di una verità velata, come dietro una tenda appena da scostare, oppure ad un passo dal baratro dello sconforto più profondo. “Non viviamo in un mondo, ma per lo meno tra due mondi. Il primo è inondato di luce, il secondo attraversato da barlumi. Al centro della luce, così ci fanno credere, si agitano quelli che oggi, per antifrasi crudele e hollywoodiana, chiamiamo people, o stars (…), sui quali trabocchiamo di informazioni il più delle volte inutili. Polvere negli occhi che fa sistema con la gloria efficace del «regno»: ci chiede solo una cosa, di acclamare all’unanimità. Ma ai margini, cioè attraverso un territorio infinitamente più esteso, avanzano… popoli-lucciole”. L’autore mantiene a vista l’abisso del contemporaneo e non si lascia mai sopraffare da improvvisi annebbiamenti. Perché c’è sempre qualche lucciola che lampeggia e salva dalla peggiore delle amarezze, ovvero dal pessimismo cosmico. Perché è proprio questa l’infinita risorsa delle lucciole: non è possibile annientare una sopravvivenza in quanto sopravvivenza. “Il loro ritirarsi, quando è «forza diagonale» [Hannah Arendt] e non un ripiegarsi su se stesse; la loro comunità clandestina di «scintille di umanità», quei segnali inviati per intermittenze; la loro essenziale libertà di movimento; la loro facoltà di fare apparire il desiderio come ciò che è indistruttibile per eccellenza… Sta a noi non vedere scomparire le lucciole”.
Vedremo ancora le lucciole luminare
Mantenere in vita le sopravvivenze è innanzitutto una responsabilità politica, perché significa trasformare, attraverso il nostro “principio speranza”, la risonanza per immagini ereditata dal passato in una prospettiva di desiderio per il futuro. Come scrive Didi-Huberman, l’immaginazione e la politica hanno uno strettissimo legame e l’immagine delle lucciole ne è solo un esempio. “Nel nostro modo di immaginare si trova fondamentalmente una condizione del nostro modo di fare politica. L’immaginazione è politica… Viceversa, la politica non può esistere, in un momento o in un altro, senza la facoltà di immaginare… Se l’immaginazione ci illumina attraverso il modo in cui il Già-stato e l’Adesso si incontrano per far nascere costellazioni cariche di Futuro, allora capiremo quanto sia decisivo questo incontro dei tempi, questa conflagrazione di un presente attivo con il suo passato reminiscente”. Avere cura delle immagini, ridare spazio creando costellazioni di memoria, come ha fatto Aby Warburg, è anche un impegno politico. E grazie ai bagliori che Didi-Humbert indica nel suo libro di lucciole, è chiaro che il rinnovamento di questo atto immaginativo, etico e politico, va colto e coltivato. Nonostante le crisi economiche ed umanistiche che ogni giorno si ripresentano. Didi-Huberman ricorda lo splendido modello cosmologico di Lucrezio in cui gli atomi “declinano” incessantemente, e durante la caduta continua si possono verificare eccezioni dalle conseguenze inimmaginabili: un atomo può uscire dalla propria traiettoria ed entrare in collisione con altri atomi, dando vita così a un altro mondo. Didi-Huberman chiama questa evenienza creativa la “risorsa del declino: la biforcazione, la collisione, il «fulmine sferico» che attraversa l’orizzonte, l’invenzione di una forma nuova”.
Le lucciole abbandonano la traiettoria più sicura ed ovvia ma allontanandosi creano altri mondi.
Tanto piena è di vita la visione di Didi-Huberman quanto desolante è la linea etico-politica indicata da Berlin. Berlin è per l’appiattimento dei contrasti, per fingerne l’inesistenza. È una luce diffusa senza ombre quella che vorrebbe vedere. E non si tratta nemmeno più della riflessione apocalittica, ripiegata su se stessa che Didi-Huberman individua in Pasolini e Agamben. È un tipo di pensiero che spiace ancor di più, perché sembra tradire la propria stessa origine. Se si immagina il pensiero critico muoversi come sulla linea oscillante di un pendolo, in continuo movimento, questa di Berlin rappresenta la rottura del pendolo. La corda è spezzata. Il pensiero avvilito.
Ma le lucciole ci sono, sopravvivono e lanciano segnali nella notte.
Fonte: il manifesto
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.