di Francesco Martone
L’ennesimo rinvio della votazione del parlamento di Tobruk sul governo di unità nazionale di Al Serraj, ed i recenti sviluppi sugli aspetti militari del dossier Libia confermano quel che già si immaginava per il futuro della Libia, ma chiamano ancor di più in causa la politica di casa nostra.
C’è del già visto nel susseguirsi di notizie «ufficiali» ed «ufficiose» nel detto e nel non-detto che permea la comunicazione del governo di Matteo Renzi sulla Libia. Da una parte la versione «ufficiale» politicamente corretta, che mette in secondo piano l’uso della forza, la spada nascosta dalla feluca della diplomazia, quella che dovrebbe vedere come «condicio sine qua non» di ogni intervento in Libia la creazione di un governo di unità nazionale.
Una diplomazia cui l’Italia vorrebbe mettersi per la stabilizzazione e ricostruzione della Libia. Continua così lo spin sulla subordinazione di ogni opzione militare alla soluzione politica, ma tale «subordinata» è ormai saltata nei piani di Washington e Parigi, ed è comunque destinata a fallire. Lo dice chiaramente in un articolo su Foreign Policy Issandr El Amrani «How much of Libya does the Islamic State control?», quando afferma che senza un dialogo dal basso tra i vari attori un governo di comodo di unità nazionale che chiederebbe un intervento esterno creerebbe ancor più caos dal quale il Daesh potrebbe beneficiare. Un approccio dal basso, che veda ad esempio la convocazione di una «jirga» dei leader locali, tribali, e quel che resta della società civile libica dovrebbe essere la chiave , come suggerito da Mattia Toaldo dell’European Council for Foreign Relations. La feluca appunto.
Una diplomazia cui l’Italia vorrebbe mettersi per la stabilizzazione e ricostruzione della Libia. Continua così lo spin sulla subordinazione di ogni opzione militare alla soluzione politica, ma tale «subordinata» è ormai saltata nei piani di Washington e Parigi, ed è comunque destinata a fallire. Lo dice chiaramente in un articolo su Foreign Policy Issandr El Amrani «How much of Libya does the Islamic State control?», quando afferma che senza un dialogo dal basso tra i vari attori un governo di comodo di unità nazionale che chiederebbe un intervento esterno creerebbe ancor più caos dal quale il Daesh potrebbe beneficiare. Un approccio dal basso, che veda ad esempio la convocazione di una «jirga» dei leader locali, tribali, e quel che resta della società civile libica dovrebbe essere la chiave , come suggerito da Mattia Toaldo dell’European Council for Foreign Relations. La feluca appunto.
Invece, la realtà ci dice che la spada viene già usata seppur a dosi omeopatiche. Come si potrebbero spiegare altrimenti la decisione di spostare in Sicilia 4 AMX italiani, e più di recente quella presa in tutta segretezza e rivelata ben un mese dopo dal Wall Street Journal, di autorizzare l’uso della base di Sigonella per drone armati a stelle e strisce da mandare proprio in Libia? Ed il recente bombardamento delle postazioni ISIS A Sabratha parte degli F16 USA prontamente condannato dal parlamento libico internazionalmente riconosciuto, e che ha ucciso — tra gli altri — due ostaggi serbi, scatenando l’indignazione di Belgrado? E come dimenticare le «rivelazioni» di Le Monde sulla presenza di forze speciali francesi nei combattimenti contro l’Isis in Libia. La realtà dei fatti svuota di significato ogni tentativo di dare legittimità alla soluzione politica, per quanto debole se non controproducente essa sia.
È inquietante questa divaricazione tra retorica e realtà, questo camminare sul filo del rasoio dell’ambiguità, al solo scopo di assicurare all’Italia o meglio al premier, un posto di capotavola del futuro della Libia. Scelte strategiche e tattiche di comodo, dettate forse più dall’urgenza di tutelare gli interessi dell’Eni ed arginare l’eventuale flusso di profughi dalle coste libiche. Anche se non nella figura dell’inviato speciale Onu sulla Libia, l’Italia le sue pedine le ha piazzate eccome e portano l’elmetto non la feluca: dal generale Serra «consigliere» militare di Kobler, all’Ammiraglio Credendino a capo della Euronavfor Med «Sophia». Il quale in un memo interno pubblicato da Wikileaks nei giorni scorsi ribadisce che un domani le forze dell’Unione Europea — oggi sulla carta in missione di «salvataggio» e contrasto al traffico di esseri umani — si troveranno ad operare anche sul terreno libico, e che semmai il problema sarà quello di coordinare le iniziative e le attività con la «coalizione internazionale».
Tra questo detto e non detto, nel gioco degli specchi tra cosa viene comunicato, cosa si decide e quali siano le conseguenze e le implicazioni di tale decisione, Matteo Renzi si appresta ad assicurare il contributo italiano alla guerra all’Isis non solo in Libia ma anche in Iraq, dove il contingente italiano, con i suoi 1300 effettivi sarà secondo solo a quello americano, e poco conta anche in questo caso se andranno o meno a difendere la diga di Mosul, o a partecipare ad operazioni di evacuazione di feriti in campo di battaglia. Questo era stato chiesto dal segretario alla difesa Ashton Carter e da Obama questo Renzi concede, con l’avallo del presidente del Consiglio Supremo di Difesa. Tutto questo stride con il rinnovato appello del Presidente Mattarella per un seggio per l’Italia al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di quelle Nazioni Unite il cui Segretario Generale proprio nei giorni scorsi aveva invocato con forza la soluzione politica alla questione Daesh, in un nuovo rapporto sulla lotta al terrorismo internazionale. Parole che si perdono ormai tra i venti di guerra.
Fonte: il manifesto
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