di Giorgio Galotti
In Italia, come in tanti paesi sviluppati, la saturazione da modello economico capitalistico sta lasciando dietro di sé macerie economiche, sociali e ambientali. Le imprese chiudono o – tutt’al più – migrano, il lavoro diminuisce, le risorse naturali si deteriorano e l’inquinamento dell’aria, del suolo e delle acque riduce l’utilizzabilità dei servizi eco-sistemici, così essenziali per la nostra vita. Qualcuno ci guadagna, ma la maggioranza ci perde. Abbiamo intrapreso probabilmente l’inizio discendente di una teoria gaussiana del benessere. Lo sviluppo, nella contemporanea definizione, è insostenibile.
In questo sommario (e quindi insufficiente) quadro della situazione le ricadute ambientali dei difetti del modello consumistico sono ancora considerate il terzo dei problemi e quindi delle priorità: prima la crescita, poi la piena occupazione e solo allora ci si può preoccupare della riduzione dell’impatto ambientale, che comunque non prevede radicali cambiamenti, ma al massimo aggiustamenti: un po’ meno consumo di risorse, un po’ meno emissioni.
Nel breve periodo forse non può essere che così. In particolare in paesi storicamente “ricchi”, dove la reazione alle crisi è la difesa al coltello per la conservazione dei privilegi, da una parte, e dei diritti acquisiti, dall’altra.
Nel breve periodo forse non può essere che così. In particolare in paesi storicamente “ricchi”, dove la reazione alle crisi è la difesa al coltello per la conservazione dei privilegi, da una parte, e dei diritti acquisiti, dall’altra.
D’altro canto, però, continuare su questa strada sia a livello globale che locale porterà un tale effetto sulla terra da rendere la vivibilità più complicata. A Parigi durante l’ultima conferenza sul clima (Cop 21) quasi 200 paesi si sono impegnati a realizzare quanto necessario per non trovarsi tra pochi anni con una temperatura media del pianeta cresciuta di oltre due gradi centigradi, oltre la quale è impensabile tornare indietro, con effetti che porteranno gravi e forse non misurabili danni a un tessuto sociale, economico e territoriale già consunto. Si pensi solo all’entità dei danni provocati dal dissesto idrogeologico, che vengono sempre pagati dalla collettività, o ai costi sanitari delle ondate di calore che sempre più spesso attanagliano le città (solo per informazione, il 2015 è stato l’ennesimo anno più caldo registrato sul pianeta dalla fine dell’Ottocento).
Ancora si parlava di Ecu che in Europa la politica già si preoccupava del degrado ambientale come minaccia per il benessere delle società. Dai primi anni novanta a oggi, comunicazioni, raccomandazioni, direttive, piani, programmi, strategie hanno disegnato il cammino verso un’economia a basso contenuto di carbonio e a ridotta produzione di rifiuti (ne hanno pubblicate talmente tante da rendere quasi complicato anche agli addetti ai lavori stare aggiornati: anche su questo tema c’è un’inspiegabile frenesia e deprecabile iperproduttività di soluzioni molto spesso solo diverse nel titolo).
Obiettivi di qualità ambientale che si declinavano in programmi di azione e infine che andavano a mettere a punto gli strumenti, cioè gli attrezzi e le metodiche con le quali dare gambe all’idea. Quei primi anni novanta sono gli anni della nascita degli strumenti ambientali volontari (Emas, Ecolabel ecc.), che hanno anche avuto delle stagioni di relativo successo, per la promessa alle imprese della loro “convenienza”. Quando ancora (e in buona parte ancora oggi) si pensava al riformismo come chiave per la correzione delle aberrazioni ambientali dell’economia di mercato.
Oggi come ultimo piano politico europeo abbiamo la promozione dell’economia circolare (dal “prendi, trasforma e getta” a un’Europa che “ricicla, ripara e riutilizza”, ha titolato un importante quotidiano in occasione della presentazione da parte del Commissario all’ambiente del pacchetto sulla economia circolare). Ora, in virtù dell’esperienza che ho maturato nel tempo, è forte in me il timore che anche quest’ultimo “richiamo” europeo – direi anche solo “richiamo al buon senso” – non sarà salutato in Italia con particolare enfasi e trasporto, e sarebbe un imperdonabile peccato.
Tra le tante macerie che in Italia si stanno accumulando, ci sono quelle delle aree industriali: a volte neanche venivano finite che già risentivano di forme di abbandono. Tra queste, però, ci sono alcune realtà che da diversi anni si stanno impegnando per una prima ed elementare riconversione ecologica del sistema di produzione, come chiave per lo sviluppo. Mi riferisco a quelle che ormai comunemente vengono chiamate Aree produttive ecologicamente attrezzate (Apea).
L’espressione “aree industriali ecologicamente attrezzate” è stato introdotto in Italia dal dlgs n. 112/98, il cosiddetto “decreto Bassanini”, che all’articolo 26 forniva le indicazioni generali alle Regioni per legiferare in materia: aree industriali dotate delle infrastrutture e di sistemi necessari a garantire la tutela della salute, della sicurezza e dell’ambiente; caratterizzate da forme di gestione unitaria delle infrastrutture e dei servizi e con gli impianti produttivi ivi localizzati esonerati dall’acquisizione delle autorizzazioni concernenti la utilizzazione dei servizi presenti. Da non sottovalutare che nell’intento del legislatore nazionale ci fosse anche l’individuazione di queste aree da parte dei Comuni, in primis tra quelle esistenti, ma anche tra quelle parzialmente o totalmente dismesse. Quest’ultima indicazione si può affermare avesse l’obiettivo di avviare una sorta di riconversione ecologica dei nuclei produttivi.
Attualmente sono 10 (Piemonte, Emilia Romagna, Liguria, Toscana, Marche, Abruzzo, Puglia, Sardegna, Calabria e, ultimamente, il Lazio) le Regioni che hanno legiferato ed emanato regolamenti applicativi in materia di aree industriali ecologicamente attrezzate, che con il tempo hanno assunto il carattere e la denominazione di Apea. In questo arco di tempo che va dall’emanazione del decreto Bassanini, passando dalla legiferazione e regolamentazione regionale, a oggi, in Italia abbiamo assistito a diverse esperienze sul campo, a partire dal 1° Macrolotto di Prato, dove già all’inizio degli anni 2000 sono state avviate iniziative di gestione dell’area industriale che avevano un chiaro richiamo alla regolamentazione delle Apea e, a volte, l’hanno anche influenzata.
Nelle versioni più avanzate della regolamentazione delle Apea si promuove anche l’applicazione dei principi della simbiosi industriale. Quest’ultima coinvolge industrie tradizionalmente separate e altre organizzazioni in una rete per promuovere strategie innovative per un uso più sostenibile delle risorse (materiali, energia, acqua, competenze, logistica), cioè quello che l’Europa si prefigge con il pacchetto per l’economia circolare. Con la nuova programmazione comunitaria 2014-2020 e con la prossima messa in atto dei Piani operativi regionali (Por), insieme ad alcuni programmi europei di finanziamento, come Orizzonte 2020, l’Europa posta ingenti risorse finanziarie destinate alla promozione dell’economia circolare.
Solo nella Regione Lazio e solo relativamente al Por, uno dei 45 progetti cardine prevede lo stanziamento di 40 milioni di euro per la “riconversione delle aree produttive in Aree produttive ecologicamente attrezzate (Apea) e la riduzione dei costi energia per le Pmi”, con l’obiettivo di costruire “una grande regione dell’innovazione”. In un paese paralizzato e in un apparente “letargo esistenziale collettivo”, come ha definito la popolazione italiana il Censis nel suo ultimo rapporto sullo stato sociale del Paese, c’è il serio rischio che quando i pochi investimenti pubblici ci sono e sono indirizzati verso un primo accenno di riconversione ecologica dell’economia non vengano apprezzati e valorizzati coerentemente a quella timida linea di politiche ambientali tracciata dall’Europa.
Il fatto è che la strada per una riconversione ecologica dell’economia è lunga e tortuosa, ma al tempo stesso è possibile iniziare il viaggio attrezzati con strumenti a volte sperimentati con successo. Le Apea sono un modello metodologico e uno strumento concreto che possono anche beneficiare di investimenti pubblici per il recupero di aree industriali che altrimenti potrebbero rischiare di venire abbandonate. Serve uno sforzo collettivo, a cominciare dalla presa di posizione delle rappresentanze di tutte le parti coinvolte, in particolare delle categorie del lavoro, oggi le più fragili.
Fonte: Rassegna sindacale
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