di Leonardo Sinisgalli
Io entro in una fabbrica a capo scoperto come si entra in una basilica, e guardo i movimenti degli uomini e dei congegni come si guarda un rito. Uno strano rito partoriale, qualcosa come la moltiplicazione dei pesci, il maturarsi delle uova sotto la chioccia di un canestro, l’esplosione di un albero di mele, la manipolazione dei pani in una vecchia madia. Sotto questi capannoni, uomini e macchine si affannano intorno a un lavoro che ha sempre del miracolo: una Metamorfosi!
Io entro in una fabbrica a capo scoperto come si entra in una basilica, e guardo i movimenti degli uomini e dei congegni come si guarda un rito. Uno strano rito partoriale, qualcosa come la moltiplicazione dei pesci, il maturarsi delle uova sotto la chioccia di un canestro, l’esplosione di un albero di mele, la manipolazione dei pani in una vecchia madia. Sotto questi capannoni, uomini e macchine si affannano intorno a un lavoro che ha sempre del miracolo: una Metamorfosi!
Si parte dalla confusione e si arriva all’ordine. Si parte dal bruco e si arriva alla farfalla. Si elabora la materia, si mastica, si stira, si insaliva, si arma, si conforma, si cuoce, e si crea un oggetto. Questo processo, nell’armeria della natura, avrebbe un solo grosso difetto intrinseco.
La prolificità. La macchina è troppo prolifica, almeno rispetto alla donna, alla giumenta, alla coniglia. Certo è più prolifica dei ragni e degli uccelli. È più prolifica dei fiori. La macchina ha una riserva incalcolabile di semi. Ti caccia fuori una sfera o un pneumatico in pochi secondi o in pochi minuti. Può spremere ininterrottamente un filo o un tubo per centinaia di ore. Senza dubbio c’è qualcosa di mostruoso in tutto ciò.
La prolificità. La macchina è troppo prolifica, almeno rispetto alla donna, alla giumenta, alla coniglia. Certo è più prolifica dei ragni e degli uccelli. È più prolifica dei fiori. La macchina ha una riserva incalcolabile di semi. Ti caccia fuori una sfera o un pneumatico in pochi secondi o in pochi minuti. Può spremere ininterrottamente un filo o un tubo per centinaia di ore. Senza dubbio c’è qualcosa di mostruoso in tutto ciò.
Ma oltre i sospetti ci sono anche le meraviglie. Dirò che queste meraviglie sono addirittura il fondamento, l’origine di quella incredibile fisiologia. Le macchine non possono sbagliarsi, non possono permettersi un movimento falso, non possono riflettere. Devono produrre forme e oggetti prefissi, forse e oggetti perfetti. Tutti eguali. Sono parti plurigemini.
È chiaro, – per la mancanza appunto di riflessione e di pentimento, per la irrevocabilità di ogni gesto, – che noi consideriamo le macchine come degli organismi inferiori. Esse lavorano a occhi chiusi. Non vedono e non sentono. Aprono gli occhi, diventano intelligenti, per un attimo solo, quando si accorgono che l’uomo che le vigila è per un attimo assente. In quell’attimo, se l’uomo ha chiuso gli occhi o ha dimenticato le mani, possono fare disastri. Ma quasi sempre palpitano, sospirano, russano, fanno le fusa. Sono contente del loro padrone.
E io non so vedere diversamente un operaio vicino alla macchina se non come un assistente, un infermiere, un ostetrico accanto a una puerpera. Le macchine sono in continuo stato di doglia, in perpetuo stato di febbre. L’operaio non può abbandonarle anche quando borbottano assopite. Si capisce: ci sono macchine e macchine.
Le macchine elettriche per esempio, e le macchine termiche, generatrici di energia, non chiedono che di essere alimentate, non chiedono che acqua e fuoco. La grande famiglia delle macchine utensili, torni, trapani, frese, esigono una presenza assidua, un soccorso ininterrotto. L’operaio deve vivere dentro un recinto strettissimo.
Alla Bicocca, almeno in molti reparti, il lavoro delle macchine è un lavoro complementare. Non c’è la frenesia raccapricciante di certe officine, dove l’automatismo ha un dominio quasi assoluto. L’uomo alla Bicocca non perde le sue attitudini, non rinuncia al suo genio. Nell’oggetto (nel prodotto, nella merce) c’è riconoscibile la misura della sua capacità. La macchina docile lo aiuta.
Tratto da Leonardo Sinisgalli, L’operaio e la macchina («Pirelli», marzo-aprile 1949)
Sinisgalli: umanesimo e tecnologia in dialogo ininterrotto
di Giuseppe Lupo
1. Sin dai primi anni Trenta per Leonardo Sinisgalli ha inizio quel lungo dialogo tra umanesimo e tecnologia che fornisce un carattere inedito alla sua complessa personalità e ne avvicina la fisionomia ai modelli di intellettuale-scienziato, incarnati cinque secoli prima da Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci. La prima importante esperienza si svolge tra il 1936 e il 1937 presso la Società del Linoleum, un’azienda che produceva un materiale di moda tra le due guerre, frutto dell’economia autarchica e idoneo a pavimentare uffici, alloggi privati e negozi. Per conto di questa società, Sinisgalli si occupa di organizzare la propaganda attraverso conferenze e viaggi nelle città del Nord Italia o tramite un manipolo di articoli sull’architettura moderna e l’arredamento pubblicati sul periodico «Edilizia Moderna». Non di rado, visitando lo stabilimento umbro di Narni, Sinisgalli osserva i processi di trasformazione delle materie prime e scopre, avvolti in un’aria d’incanto, pulegge, ondatoi rotativi, calandre, presse, macinatrici, caldaie per la cementazione. Da questo folgorante incontro rimane uno scritto lungo non più di otto pagine e corredato di disegni a penna, che Gio Ponti pubblica nel 1937 con il titolo di Ritratti di macchine. L’esperienza presso la Società del Linoleum orienta il destino del poeta-ingegnere nel mondo dell’industria italiana. Sinisgalli, infatti, si occuperà quasi esclusivamente di comunicazione aziendale, lavorando anche, dal 1938 fino alla guerra, come direttore dell’Ufficio Tecnico di Pubblicità della Olivetti: uno dei luoghi centrali della nascente utopia olivettiana, fra i più utili a decodificare i segnali della cultura milanese tra le due guerre, probabilmente uno tra i più originali laboratori dove percorrere l’ipotesi di un nuovo umanesimo e mettere in relazione i paradigmi dell’arte e della poesia con le formule scientifiche e i simboli algebrici. Basterebbe passare in rassegna i nomi dei più stretti collaboratori di Sinisgalli, da Costantino Nivola a Salvatore Fancello, da Marcello Nizzoli a Giovanni Pintori, da Lucio Fontana a Elio Vittorini, per comprendere in che modo l’Ufficio di via Clerici, le vetrine del negozio Olivetti in galleria Vittorio Emanuele e, addirittura, gli stessi cartelloni pubblicitari in quegli anni siano diventati il punto di convergenza di poliedrici linguaggi – pittura, scultura, grafica, meccanica, architettura –, unificati da un codice che richiama alla memoria quel tipo di interdisciplinarietà così cara a Leonardo.
2. Dopo la parentesi del conflitto e la convulsa stagione che fa seguito alla nascita dell’Italia repubblicana, Sinisgalli comincia un lungo sodalizio con Giuseppe Eugenio Luraghi: manager, editore, scrittore, all’epoca dirigente della Pirelli. Insieme con Luraghi, Sinisgalli fonda e dirige, nel 1948, l’omonima rivista dell’industria leader in Italia nel settore della gomma. Sulle pagine di «Pirelli» non si scorge solamente un’operazione di propaganda affidata alla penna di esperti, ma il bisogno di esplorare l’orizzonte della modernità attraverso gli occhi dei poeti e degli artisti. Emblematici sono, per esempio, la didascalia leopardiana («Il naufragar m’è dolce»), adoperata come slogan per il canotto prodotto con gomma Pirelli e denominato Nautilus, o il confronto tra un manichino metafisico, che domina la scena di un quadro di De Chirico, o una fotografia di un distributore di benzina Shell. Su questa rivista trovano ospitalità l’indagine di Antonio Baldini sulla presenza della palla nei testi letterari (Di rimbalzo) e la surreale poesia di Alfonso Gatto Il bambino di gomma; le incursioni architettoniche tra razionalismo e civiltà contadina di Libero De Libero, Alfonso Gatto, Salvatore Quasimodo, Vittorio Sereni, Diego Valeri, Giorgio Saovi; le scritture di gite domenicali realizzate da Eugenio Montale, Giovanni Russo, Carlo Bernari, Riccardo Bacchelli, Domenico Cantatore, Dino Buzzati, Michele Prisco, Piero Chiara e Alessandro Parronchi. L’apertura ai poeti e agli artisti costituisce una certa novità nell’impostazione (che la rende vicina al modello del rotocalco) e attribuisce quell’atmosfera di reciproco scambio tra i linguaggi della tecnica e della letteratura che è il paradigma a cui si attengono anche le successive riviste fondate da Sinisgalli dopo «Pirelli», a partire da «Civiltà delle Macchine», che nasce con l’ambizione di tentare il dialogo tra le “due culture”. «L’inverno del 1953» – ricorda Sinisgalli in un’intervista a Ferdinando Camon del 1965 – «a Roma in un Ufficio di Piazza del Popolo, quando misi a fuoco il progetto di “Civiltà delle Macchine” [...] la cultura dell’Occidente era rimasta incredibilmente arretrata e scettica nei confronti delle tecnica, dell’ingegneria. Voglio dire che erano sfuggite alla cultura le scoperte di Archimede e di Leonardo, di Cardano e di Galilei, di Newton e di Einstein. Io volevo sfondare le porte dei laboratori, delle specole, delle celle. Mi ero convinto che c’è una simbiosi tra intelletto e istinto, tra ragione e passione, tra reale e immaginario. Ch’era urgente tentare una commistione, un innesto, anche a costo di sacrificare la purezza». Non solo alla testata collaborano letterati e scienziati, ma addirittura i poeti e i pittori si mettono in viaggio per visitare le fabbriche: Salvatore Quasimodo e Domenico Cantatore si recano alle officine S. Eustachio di Brescia, Giorgio Caproni e Renzo Vespignani ai Cantieri navali dell’Ansaldo di Genova e alla Centrale idroelettrica di Galleto-Papigno, Libero De Libero va all’Aerfer di Napoli, Michele Prisco alla Fabbrica Metalmeccanica Italiana di Napoli, Franco Gentilini alle Industrie Siderurgiche di Cornigliano, Orfeo Tamburi alla Centrale di Meudon, Mario Mafai agli Stabilimenti Siderurgici di Pozzuoli. L’idea che finalmente le porte delle industrie si aprissero ai letterati non solo inaugura un vero e proprio genere letterario (quello della “visita in fabbrica”), ma conferisce anche un’originalità al programma della rivista, addirittura ne fa periodico erede di quella tradizione che ricorda il celebre «Politecnico» di Carlo Cattaneo o, un secolo più indietro, l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert. In realtà, il vero modello di riferimento culturale sta nel magistero di Leonardo da Vinci. Non a caso la copertina del numero 1 (gennaio 1953) reca l’immagine dei disegni sul volo degli uccelli e allo scienziato quattrocentesco si farà costante riferimento nei numeri successivi, individuandolo quale nume tutelare di una sensibilità culturale che nasceva sotto la doppia prospettiva tecnica e umana.
3. La terza stagione milanese vede Sinisgalli impegnato presso l’Alfa Romeo, per conto della quale, dall’ottobre del 1966 al luglio del 1973, fonda e dirige la rivista «Il Quadrifoglio», l’ultimo dei periodici usciti dal sodalizio con Luraghi, che in quel periodo ricopriva il ruolo di Presidente dell’azienda del Portello. Il primo numero si apre con un articolo anonimo, Avventura di uno spider, in cui protagonista è lo Spider 1600 Pininfarina, un’automobile che in fabbrica era chiamata “osso di seppia” e che, dopo un concorso internazionale con più di centoquarantamila cartoline pervenute alla direzione della rivista, è stata definitivamente battezzata Duetto. Si potrebbe supporre che a trovare l’epiteto “osso di seppia” sia stato Sinisgalli, il quale già qualche anno prima, stando alle testimonianze di Luraghi, aveva fornito il nome ufficiale a un’automobile di gran successo come la Giulietta Alfa Romeo. A differenza dei precedenti fogli industriali, sui ventisette numeri del «Quadrifoglio» la firma di Sinisgalli compare solo in due circostanze e quasi a conclusione del lavoro di direttore: nel gennaio del 1971, a proposito di una tavola rotonda svoltasi nella Sala Colonna dell’Hotel Sonesta a Milano sul rapporto tra La donna e l’automobile; nell’ottobre del 1972, all’interno di un’inchiesta dal titolo Quando la tecnica si fa stile. In entrambi i casi, al di là dell’occasionalità degli interventi, si scorge una matrice comune nell’accostamento tra le automobili e la poesia. Stupisce non poco – e potrebbe apparire perfino contraddittorio – non tanto il tentativo di definirle, in Aforismi di un poeta ingegnere, «figlie del fuoco e del vento» alla stessa maniera con cui Pindaro glorificava i vincitori di Olimpia, quanto l’omaggio reso a Filippo Tommaso Marinetti e al suo celebre testo All’automobile da corsa. Ciò fa pensare a una certa involuzione rispetto alle posizioni assunte nei decenni precedenti – confermata, tra l’altro, dall’assenza totale del nome di Leonardo da Vinci –, quasi fosse una sorta di ritorno alle questioni dibattute agli inizi del Novecento. Un dato da non trascurare è l’innegabile legame esistente tra il prodotto fabbricato nei capannoni dell’Alfa Romeo e il mito della modernità incarnato dalle automobili da corsa, verso cui i futuristi avevano subito mostrato un amore viscerale. Ma ci sono anche ragioni che esulano dal fatto pubblicitario e vanno individuate nella capillare diffusione che le automobili sono avviate ad assumere negli anni del boom economico. Il miraggio di civiltà industriale che finalmente è diventata di massa reca in sé anche la fine di un pionieristico modo di concepire l’industria secondo la maniera laboratoriale che Sinisgalli aveva adottato dalla lezione di Leonardo. Le cause vanno rintracciate proprio nei mutamenti che in quel momento toccano i gruppi industriali. Diversi sono diventati i criteri del fare pubblicità e ormai modificato per sempre si presente il rapporto tra aziende e intellettuali. «Non è una situazione allegra» confessa a Luraghi nella già ricordata lettera del 30 marzo 1965. «L’estro viene sostituito dalla regola. Nel mondo della produzione e della cultura di massa c’è posto per i copywriters, non c’è posto per i poeti».
Fonte: doppiozero.com
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.