di Lorenzo Zamponi
Come avevamo scritto alla vigilia delle primarie democratiche in Iowa e New Hampshire, i sondaggi nazionali in una corsa a tappe per stati non avevano alcun senso, e un buon risultato di Bernie Sanders nei primi due stati li avrebbe radicalmente modificati, trasformando il senatore del Vermont in un candidato credibile, seguito dai media di tutto il paese e in grado di giocarsela ovunque. Così è stato, e il voto in Nevada lo dimostra, con Hillary Clinton che prevale con uno scarto del 4% in uno stato in cui due mesi fa era avanti di oltre 20 punti percentuali.
È impossibile dire se la battaglia di Bernie Sanders, che abbiamo già descritto come una sfida populista radicale nella più tipica tradizione della sinistra americana, avrà successo.
Un test decisivo sarà quello del 27 febbraio in South Carolina, uno degli stati più neri d’America, con quasi il 30% di afroamericani nella popolazione. Se Sanders dimostrerà di essere competitivo anche tra i neri, e più in generale nel sud, allora potrà giocarsela nelle successive primarie del 1 marzo (il cosiddetto “Super Tuesday”), da cui forse non uscirà il vincitore ma sicuramente un favorito per la vittoria finale.
Un test decisivo sarà quello del 27 febbraio in South Carolina, uno degli stati più neri d’America, con quasi il 30% di afroamericani nella popolazione. Se Sanders dimostrerà di essere competitivo anche tra i neri, e più in generale nel sud, allora potrà giocarsela nelle successive primarie del 1 marzo (il cosiddetto “Super Tuesday”), da cui forse non uscirà il vincitore ma sicuramente un favorito per la vittoria finale.
Ma la battaglia per la candidatura alle elezioni presidenziali non è l’unica che Bernie Sanders sta giocando. Tra le righe delle sue dichiarazioni emerge in maniera sempre più insistente un’altra questione, di portata ben maggiore, forse addirittura storica: Bernie Sanders vuole farla finita con la “identity politics” (l’enfasi sugli aspetti etnici, di genere, religiosi e di identità sessuale che caratterizza la politica americana), o almeno con la sua egemonia a sinistra, e rimettere al centro l’analisi economica dei rapporti sociali, se non di classe, come chiave interpretativa della società e come proposta politica.
Non si tratta di una novità: fin dall’annuncio ufficiale della sua candidatura, il 26 maggio scorso, Sanders aveva dichiarato che i temi centrali della sua campagna elettorale sarebbero stati la lotta alle disuguaglianze di redditi e patrimonio, la creazione di posti di lavoro, l’aumento dei salari, la riforma del sistema finanziario, il potenziamento dei sistemi di welfare. Il senatore socialdemocratico del Vermont non l’ha mai nascosto: la sua battaglia è quella contro lo strapotere della grande finanza nella politica americana e ciò che ne consegue in termini di scelte politiche e di governo.
Già alla vigilia del voto in Iowa e New Hampshire avevamo fatto notare come questa strategia rendesse Sanders in grado di far breccia in settori tradizionalmente inaccessibili per l’ala sinistra del Partito Democratico. Secondo alcuni sondaggi, il senatore radicale è più popolare della moderata Clinton tra gli elettori che si definiscono “moderati” o “conservatori”, in particolare se di reddito basso o medio-basso. Insomma: la working class bianca, tradizionalmente ostile alle battaglie progressiste della sinistra, potrebbe essere pronta a riposizionarsi, se si parla di economia e disuguaglianze. Un terremoto di portata storica, se si verificasse.
La conferma che non si tratti semplicemente di una tattica elettorale, ma di una strategia politica di ben più ampio respiro, si è avuta negli ultimi giorni. Spaventati dal successo di Bernie, infatti, Hillary Clinton e l’establishment democratico hanno iniziato ad attaccarlo in maniera più pesante, e non più solo “da destra”, sulla sua presunta incapacità di contendere ai repubblicani l’elettorato centrista, ma anche “da sinistra”, accusandolo di essere un “single-issue candidate”, un candidato in grado di parlare di un solo tema, l’economia, ma assolutamente incapace, in quanto maschio, bianco e anziano, di rappresentare le battaglie progressiste sulle questioni di genere e razziali.
Nel tentativo di sembrare più cool di Sanders e di sfidarlo sul piano della “identity politics”, Hillary Clinton è arrivata a parlare pubblicamente di “intersectionality” nei suoi discorsi pubblici e su Twitter, riferendosi al dibattito nel femminismo radicale sull’interazione tra varie forme di discriminazione (a partire da quelle di genere, razza e classa) nel determinare una situazione oggettiva di oppressione. Un tentativo esplicito di strizzare l’occhio alla sinistra femminista e al movimento dei neri, rappresentandosi come la candidata veramente progressista sui temi identitari, mentre Sanders sa parlare solo di disuguaglianza ignorando le sottigliezze dottrinarie delle multiple identità contemporanee.
La risposta di Sanders, nel dibattito televisivo in Nevada, è stata particolarmente interessante. Alla domanda di uno dei conduttori, sull’accusa di essere un “single-issue candidate”, il senatore ha risposto: “Faccio discorsi di un’ora e mezza, in cui copro quindici o venti temi diversi, quindi non so da dove venga quest’idea del singolo tema”. “Ma – ha aggiunto, alzando il tono – mi chiedete se credo che ci sia bisogno di concentrarsi in particolare sull’economia, quando la classe media sta scomparendo, quando le persone, qui in Nevada e in tutto il paese, stanno lavorando più ore per salari più bassi e quasi tutto il nuovo reddito prodotto va all’1% più ricco? Sì, ho intenzione di concentrarmi su quello”. Non un passo indietro, quindi: certo, esistono molti temi importanti e un candidato serio deve affrontarli tutti, ma Sanders non nega, e, anzi, rivendica, la centralità della questione economica nella sua lettura dell’America contemporanea.
Pochi minuti dopo, un sostenitore di Hillary Clinton (più bianco della candeggina, tra l’altro), gli ha lanciato un altro attacco “da sinistra” sui temi identitari, accusandolo di “trattare i temi razziali come temi economici”, concentrandosi solo su lavoro e salari e ignorando questioni come la brutalità della polizia nei confronti degli afroamericani. Sanders ha risposto ricordando che il suo programma è il più radicale, in termini di riforma della polizia, e che lui stesso ha una lunga storia di militanza sui temi razziali, avendo partecipando alla marcia su Washington organizzata da Martin Luther King nel 1963 ed essendo stato arrestato durante una manifestazione contro la segregazione razziale a Chicago nello stesso anno. Ma non ha mollato il punto sulla centralità del dato economico: “C’è una connessione, tra l’economia e il fatto che neri e ispanici finiscano in prigione? – ha chiesto – Lasciate che dica una cosa. Oggi la disoccupazione giovanile tra gli afroamericani è al 51%. E qualche volta i ragazzi si mettono nei guai, quando non hanno un lavoro. Sapete cosa penso? Dobbiamo investire nell’istruzione e nel lavoro, non nelle prigioni”. Ancora una volta: rivendicazione della propria radicalità sui temi razziali, condanna delle violenze della polizia, proposta di legalizzazione della marijuana per svuotare le carceri. Ma senza mollare il punto: il nodo centrale è l’economia.
La battaglia di Sanders, da questo punto di vista, mira a molto di più che alla vittoria delle primarie. La politica americana da ormai tre decenni è strutturata intorno alla cosiddetta “culture war”, una battaglia sui valori, tra progressisti e conservatori, che gira fondamentalmente intorno a sette temi (aborto, uso delle armi, laicità dello stato, privacy, droghe leggere, omosessualità e censura) e che rimuove completamente il dato economico dal campo, riducendolo a un dato tecnico sulla capacità di un presidente di tenere in ordine i conti e di creare posti di lavoro. È in questo modo che la destra ha costruito, da Ronald Reagan in poi, la sua egemonia sulla società americana: rimuovendo il tema delle disuguaglianze e dei rapporti di classe, ancorando a sé, grazie al riferimento costante ai valori tradizionali, una parte consistente della working class bianca e ghettizzando la sinistra nella gabbia della “identity politics”. Anche quando Bill Clinton divenne presidente, nel 1992, al grido di “It’s the economy, stupid”, il riferimento era alla recessione che Bush senior non era riuscito ad arginare. L’economia come scienza da maneggiare correttamente, non come fattore in grado di strutturare i rapporti sociali, dividere e aggregare. Un primo colpo a questo meccanismo infernale fu sferrato 8 anni fa da Barack Obama, che sulla scia della crisi finanziaria riuscì a parlare, per la prima volta dopo decenni, di disuguaglianze. Ma da un punto di vista demografico la vittoria di Obama è legata soprattutto alla crescita numerica dei settori sociali che non si riconoscono nei valori dell’America WASP: neri, donne, giovani, migranti. Sanders, da questo punto di vista, ha un obiettivo ancora più ambizioso: battere la destra anche nel suo stesso terreno, conquistare una parte rilevante degli elettori maschi e bianchi, senza, al tempo stesso, mollare di un centimetro sulla radicalità delle proposte legate a genere e razza, ma, piuttosto, cercando di far diventare egemoniche quelle proposte nel quadro del “master frame” sulla disuguaglianza economica.
Una sfida storica, che non a caso corrisponde all’ascesa di un libertino e cosmopolita membro dell’élite newyorkese (il male assoluta, per i conservatori dell’America profonda) come Donald Trump all’interno del Partito Repubblicano. Dopo anni di battaglie tra religione e laicità, tra pistole e pacifismo, tra austerità morale e gaiezza freakettona, queste presidenziali potrebbe essere una sfida tra ricchi e poveri, tra miliardari e lavoratori, tra culto dell’avidità e lotta per l’uguaglianza. Un bagno di normalità in grado, forse, di ridare senso alla stessa parola “sinistra”, anche negli Stati Uniti.
Fonte: Il Corsaro
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