di Giorgio Nebbia
Quando, nella metà degli anni sessanta del secolo scorso, la ventata dell’”ecologia” si è abbattuta sul mondo occidentale, e anche in Italia, è apparso evidente che esisteva una insanabile contraddizione fra il comportamento --- la nascita, la crescita e la morte --- degli esseri viventi in uno spazio e in un pianeta limitato, descritto dall’ecologia, e le leggi dell’economia, che prescrivono la crescita dell’estrazione di risorse naturali e dei consumi di merci da parte degli esseri umani, trovando comodo ignorare i limiti fisici del pianeta. Il mondo degli affari capì al volo dove quelle strane idee ecologiche avrebbero portato e l’”ecologia” fu riconosciuta come scienza sovversiva; soprattutto dopo il successo editoriale, nei primi anni settanta, di quel librettuccio scandaloso che raccomandava di porre dei limiti alla crescita della popolazione e dell’uso delle risorse naturali.
Il mondo degli affari aspettò, come fa sempre, con pazienza che la tempesta passasse e, dopo i brevi anni della primavera dell’ecologia, vide con sollievo sgonfiarsi l’ondata di contestazione. Un po’ contribuì la crisi economica degli anni settanta, un po’ la constatazione che anche gli ecologisti e ambientalisti erano, in fondo in fondo, anche loro dei consumatori, complici di quei disastri che dicevano di voler evitare.
Si sono lentamente diffuse nuove ideologie; una fu rappresentata dall’”ambientalismo scientifico”, con la tesi che non è giusto dire sempre di no, che si devono conciliare le necessità economiche (compreso l’assicurare lavoro al prossimo) con le esigenze dell’ambiente, che con adatti macchinari è possibile attenuare i danni ecologici, all’insegna della necessità di “coniugare l’ecologia con l’economia”.
Ancora maggiore successo ebbe l’ideologia dello sviluppo “sostenibile” degli anni ottanta, propagandata da un club di potenti intellettuali e imprenditori internazionali: lo sviluppo, e implicitamente la crescita economica, possono essere sostenibili, duraturi, è possibile con adatti provvedimenti continuare sulla strada della crescita economica, sinonimo di progresso, usando le risorse naturali in modo che ne restino altrettante disponibili per le generazioni future. Una tesi ironizzata dal proverbio inglese: “To eat a pie and have it”, che si può mangiare la torta e averla ancora tale e quale dopo il pranzo, cosa evidentemente impossibile.
Poi sono passati gli anni delle vacche grasse e quelli della vacche magri, nuove potenze industriali si sono affacciate sulla scena del mondo, affamate di merci, i danni ecologici si sono fatti sempre più gravi e vistosi, fino all’attuale spavento della scoperta della crisi climatica, figlia proprio della crescita dei consumi di fonti di energia e di merci, e sono state inventate altre ricette come la resilienza e simili.
In tutto questo vasto dibattito i difensori dell’ambiente hanno fatto troppo poco per affrontare il nocciolo del problema; supposto di voler realizzare una società non dico sostenibile, ma almeno meno insostenibile, di decidere di produrre beni materiali in maniera meno violenta e distruttiva, per la nostra e le future generazioni --- che cosa “sarebbe bene” fare?
Davanti all’aggravarsi irreversibile della crisi ambientale, o ecologica, se volete, un gruppo di studiosi impegnati italiani ha cercato di offrire la “propria” soluzione in numerosi articoli e saggi raccolti a cura di M. Di Pierri, S. Falocco e L. Greco, e pubblicati nel bel libro: Riconversione: un’utopia concreta. Idee, proposte e prospettive per una conversione ecologica e sociale dell’economia”, pubblicato dalla casa editrice Ediesse di Roma.
Il libro contiene 26 articoli, preceduti da una Introduzione scritta dai tre curatori, che analizzano gli strumenti tecnico-scientifici, economici, sociali e giuridici con i quali dovrebbe essere possibile conciliare in qualche modo la contraddizione fra due modi di amministrare il presente in vista del futuro del mondo.
Una “riconversione ecologica” è possibile soltanto con la scelta economica, culturale e politica del “di meno” e del “diverso”. Se si vogliono fare durare di più le risorse naturali, non illimitate, del pianeta --- acqua, minerali, raccolti agricoli e forestali, eccetera --- e se si vogliono inquinare di meno aria, acqua e suolo, bisogna estrarre meno risorse e quindi produrre meno e diversi merci e servizi. Perché i servizi, anche quelli apparentemente immateriali, richiedono anch’essi beni materiali, fisici.
Il libro “riconversione” offre, racconta, varie iniziative ecologicamente corrette --- progettare diversamente le macchine e le merci, usare come materia prima la biomassa, produrre alimenti “biologici”, produrre elettricità dal Sole e dal vento, porre dei limiti al traffico --- sperimentate in Italia con successo, spiegando che esse saranno ancora di più efficaci con una diretta partecipazione popolare, dal basso, lavorando insieme, con un progetto di riorganizzazione sociale e dei rapporti di potere.
Soprattutto la riconversione richiede una revisione della vera fonte di tutte le crisi, ambientali ed economiche, la proprietà privata. Se una miniera o un bosco hanno un “proprietario” è “giusto” che egli ne goda, cioè ne “sfrutti” una parte sottraendolo ad altri a chi verrà e generando scorie e rifiuti che danneggiano qualcun altro. Da questo punto di vista, pur apprezzando tutti gli altri contributi, sono stato colpito dal saggio di Giovanna Ricoveri sui “beni comuni”, una espressione largamente usata ma che qui invita ad una nuova politica e gestione delle risorse naturali che non sono “di qualcuno”, ma di tutti, “comuni”, appunto, che ci sono state date da chi ci ha preceduto in un territorio e sul pianeta e che abbiamo il dovere di lasciare, a chi verrà, degradate e contaminate “il meno possibile”.
Fonte: Ecologia Politica
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